giovedì 28 ottobre 2010

Storia di Antonio, detto Tonino, e della sua gamba sinistra

Son passati vent’anni ma Tonino la sua gamba ancora se la sogna. Staccata da lui, appesa a un gancio del rimorchio frigorifero, a dondolare assieme ai quarti di vitello.
Chissà dov’era finita il giorno ch’è volata via. Lui l’aveva vista, là in mezzo alla strada, a una ventina di metri dall’incrocio di Borgo Panigale, prima che i compagni lo mettessero in terra ad aspettare l’ambulanza. Qualcuno dice che la gamba l’avevano presa sù per portarla all’ospedale. Qualcuno dice che nel trambusto nessuno ha più capito niente ed è rimasta là.
Poi chissà... In fin dei conti era una gamba, mica niente. Ma chi se ne frega, quella che ha adesso è anche più bella. “Senti io sono un tipo duro - diceva a Frigeri, camionista come lui - Se mi vogliono far morire di fame allora voglio essere io a fare morire di fame loro. Niente bistecche, niente di niente. Devi fare lo stesso anche tè, cagasotto, niente mozzarelle, niente pomodori, carciofi e finocchi, niente di niente. Così la gente crepa e si accorge che ci sono anche i camionisti al mondo, detti Autotrasportatori”.
Tonino era un duro, al sindacato lo mandavano a chiamare quando c’era da discutere coi padroni. E il giorno della gamba, quando era diventato padrone anche lui, e aveva finito di pagare le rate del camion, lo volevano in prima fila nel corteo dello sciopero. Adesso c’era da discutere col governo perché aumentava il gasolio, aumentavano le tasse, aumentavano i pedaggi dell’autostrada.
Sicuro, Tonino era uno che aveva del carisma. Strade, autostrade, raccordi anulari, tratti pericolosi, caselli strategici (per via delle trattorie), lui li conosceva come i corridoi di casa. Gli altri chiedevano a lui. E lui con la mappa spiegata sul cofano dava le dritte. “Qui, in questo punto, fai a modo che c’è sempre la pula. Vai piano che ti mettono fuori la paletta e dopo sono cazzi tuoi. Tieni una chilata di carne da parte che se ti fermano, con tre quattro braciole e un bel po’ di salsicce, ti lasciano andare. Tè non fare il furbo e digli che hanno ragione. E gli metti in mano il pacchettino. Se non ti ferma nessuno poi quanto torni te lo tieni tè.”
Cinquanta quintali di cosce di mucca era stato il suo primo carico. A vent’anni portarsi dietro la schiena cinquanta quintali di cosce di mucca uno si sente un dio. Torino, Novara, Genova, Parma, Rimini… Arrivi che spacchi il minuto, salti giù dalla motrice, apri il portellone dietro con una mano sola e dal magazzino arriva gente a vedere che fenomeno che sei. Che spetacolo. Guarda qua che roba. Un altro balzo per salire nel frigo e staccare il coscione da 150 chili dal gancio. Tutto da solo. Farlo scivolare sulla schiena come aveva visto nei film degli antichi romani, diceva lui, mica come faceva Frigeri, che prendeva in braccio i quartini quando scaricava, e li teneva abbracciati dietro la vita come faceva con le donne quando andavano a ballare a Budrio. Non era bello da vedere. Faceva un collo da toro per lo sforzo e ci doveva sempre essere qualcuno a prendere la bestia da sotto. “Ma cosa ci vuoi fare con quel vitello, ci vuoi balare un walzer?”
Frigeri aveva fatto già tre ernie inguinali. E lui neanche l’ombra.
A quel tempo Tonino pensava in grande, aveva in mente l’America e i suoi camion che sfrecciano sull’asfalto luccicante, specie di dinosauri sgargianti, con 18 ruote e cromature accecanti, frigo, letto, televisore.
Era quasi riuscito a convincere anche la Rina: matrimonio in autunno, quattro, cinque anni di lavoro duro, poi via. Lì ce n’è di carne da far viaggiare. Dall’ Oregon al Montana, dal Michigan all’Arkansas, sempre insieme, su un bestione da 600 cavalli, con un’ aquila sul cofano. Lui alla guida, lei a preparare hamburger e lavargli la roba.
La sogna ancora Tonino la sua gamba che vola in mezzo alla strada.
“Tonnicchio, sognare vuol dire non avere la coscienza a posto”, gli diceva sua madre. Ma non sapeva neanche lei cosa voleva dire. “E quale sarebbe stata la mia colpa? Di aver fatto casino con tutti quelli della categoria per difendere i miei diritti?”
Sì, per la vecchia era colpa sua. In quello sciopero non ci doveva stare. A farsi imbambolare dalla politica lui c’aveva sempre rimesso.
Le aveva bussato alla porta un vicino del pianerottolo per dirle che aveva sentito alla televisione che Tonino aveva avuto un incidente. E poco dopo l’aveva chiamata al telefono uno della polizia per dire “non è successo niente di grave”, che voleva dire che non era morto e che stava al Rizzoli a farsi segare il moncone dell’anca sinistra.
Non era morto per un pelo perché se l’autocarro che arrivava da dietro gli sbatteva sulla schiena lo apriva in due. Certo che si poteva dire che gli era andata bene! Dunque non era successo niente di grave, niente di grave.
Era stato spavaldo a montare sul predellino di quel tipo che non voleva aderire allo sciopero. Era stato imprudente a rimanere aggrappato al finestrino per convincerlo a fermare il camion e unirsi a loro. Sull’incrocio della statale per Bologna era arrivata un sacco di gente, i vigili, la polizia, i sindacalisti con le bandiere, gli operai della Beca, i metalmeccanici per solidarietà, uomini e donne incazzati che per un motivo o per l’altro ce l’avevano col governo. Poco dopo si sarebbe formato il corteo per arrivare in piazza a sentire cosa aveva da dire il ministro.
Il camionista preso di mira, il crumiro, per prudenza aveva fermato il camion e spento il motore, quando Tonino con un balzo era salito su. Tonino aveva avvicinato la testa a quella del giovane per spiegargli, con le buone, che lo sciopero era sacrosanto e che nessuno poteva tradire i compagni, neanche lui. Il tipo, certo, le ragioni le capiva, ma che no, era inutile insistere, lo sciopero non lo faceva, punto e chiuso. Che il suo padrone non aderiva alla lotta, e che anche lui doveva fare uguale.
A quel punto un esaltato, che aveva già attaccato briga con dei poliziotti, aveva urlato “Del tuo padrone non ce ne frega un cazzo, stronzo, crumiro di merda” ed era successo il disastro. Il giovane, pallido di rabbia, esasperato da quegli insulti, aveva girato la chiave del cruscotto, acceso il motore e messo in moto il camion senza lasciare il tempo a Tonino di saltar giù . Annebbiato dalla rabbia, senza visuale, per via della testa di Tonino che gli copriva lo specchio retrovisore, il giovane non si era accordo che dietro arrivava un tir da 500 quintali con un rimorchio pesante come una montagna che nessuna intenzione, nessuna volontà, nessuna intimazione di stop, nessun freno azionato a mano o a pedale avrebbe mai potuto arrestare. L’impatto aveva accartocciato più di 10 metri cubi di lamiera e sputato nell’aria odore di benzina di sangue e di paura come fosse l’ alito pestilenziale di un drago
Tra il cofano di quella bestia arrivata da dietro direttamente dall’inferno e la fiancata sinistra del camion di un crumiro senza coscienza di classe, c’era Antonio, detto Tonino, autotrasportatore dall’età di 18 anni, venuto da Enna, in Sicilia, quando ne aveva 12, terzo di 9 fratelli, fidanzato con la Rina e in procinto di sposarsi e di trasferirsi negli Stati Uniti d’America.
Era tutta la sua vita che volava via, insieme alla gamba sinistra, con lo stivaletto di cuoio e la calza corta.
Volava il diploma incorniciato, volavano le cambiali del camion, le foto della Rina il giorno del fidanzamento. Volava il sogno americano. Anche sua madre aveva visto volare nell’aria fredda del 13 marzo del 1990, con il suo scialle nero da siciliana timorata di dio, a disegnare nel cielo sopra la strada cerchi concentrici come chiocciole in movimento, a galleggiare senza peso, nel silenzio che si era fatto nella sua testa, per infiniti minuti, fuori da ogni spazio e da ogni tempo, fuori da qualsiasi comprensione e ragionevolezza, fuori da qualsiasi giustizia umana e divina. Tutta la sua vita, vissuta e immaginata, faticata e promessa.
Di Tonino si diceva che era uno che aveva dello stomaco, era un duro, ma era lui che faceva coraggio a sua madre quando saliva a fargli visita e a cercare consolazione. Sesto piano, quartiere San Donato, 75% di invalidità, protesi in silicone.
“Hei Mà, vè che roba, guarda che vista da qui. Alla sera coi grattacieli di San Donato tutti accesi, sai cosa mi sembra? Mi sembra d’essere a New York. Vè che spetacolo”.

Elena Bellei

Nessun commento:

Posta un commento