sabato 25 maggio 2013

Bradipo adiposo

La cosa più importante che sapevo di mio padre è che di base non lo conoscevo. Non faceva il venditore ambulante o il militare, almeno non credo. Era solo uno di quegli uomini che non sembrano mai essere davvero dove sono.
Faceva una strana espressione, se entravo nella stanza dove stava a pensare, sognare, tramare, o qualsiasi cosa stesse fingendo di fare, o se gli parlavo mentre era presente ma sperduto. L’espressione diceva chi sei, cosa fai qui, cosa vuoi da me?
Non mi venne mai in mente di chiedere ai miei fratelli cosa pensassero di lui. Forse sapevano qualcosa che ignoravo, oppure erano ragionevolmente contenti quindi non eccessivamente curiosi, o semplicemente non gliene importava nulla. 
A volte mi sembra di vedere l’espressione da naufrago di mio padre mentre mi cancello la barba bianca a rasoiate.
Andava tutto abbastanza bene...nel senso, abitavamo in una casa accettabile dove i pasti caldi erano regolari...finché Papà portò a casa una scimmia.
Mio fratellino non aveva ancora iniziato a camminare.
La scimmia poteva camminare stando eretto. Non aveva la coda, quindi non era una scimmia, ma un primate, più specificamente uno scimpanzé. Li guardai camminare su per l’isolato, poi il vialotto di casa. Papà nel solito abito grigio, lo scimpanzè in pantaloni corti. Si tenevano per mano come se si conoscessero da tempo. Papà si frugò in tasca per le chiavi e fece entrare prima lo scimpanzé.
Non era il suo stile gridare, cara sono tornato dalla fabbrica, laboratorio o base aerea militare, insomma da quel posto dove lavoro o faccio finta di lavorare. Nemmeno noialtri abitatanti della casa usavamo mollare ciò che facevamo per andare a salutare il padre lavoratore che rientrava nel suo regno.
Papà e scimmiotto passarono direttamente in cucina, dove l’animale si prese una banana. Forse il primate aveva chiesto una banana mentre erano per strada, o aveva comunicato fame di banane attraverso uno sguardo, un gesto. Mangiò la banana senza prima sbucciarla, cosa che non suscitò alcun commento da Papà. Lui optò per una birra. Era alquanto precisino, non beveva mai dalla bottiglia o lattina, versava sempre il liquido spumoso in un bicchiere alto. Devo ammettere che così è più attraente e non lo sentii mai ruttare né mai lo vidi asciugarsi la bocca sull’avambraccio. 
Io, mamma e i fratelli stémmo alla porta per fissarli. Era chiaro che lo scimpanzé non era stato portato a casa come animale domestico per nostra delizia e istruzione.
Mamma si scongelò per prima. Sistemò il piccolo, poi si mise a preparare la cena come se il pasto serale fosse un progetto del tutto nuovo che comportava difficoltà e problemi tecnici. 
Papà cucinava meglio di lei. Intendo, qualsiasi cosa preparasse, da spuntini a dolci, era francamente superiore alla roba che sfornava la mamma. Ma era palese che non gli piaceva cucinare, né fare altri lavoretti domestici. Era difficile capire cosa gli piacesse, invece; quali aspetti della vita, nel caso ve ne fossero, gli dessero piacere o soddisfazione. 
Papà finì di bere, ci vide che guardavamo lui, e non lo scimpanzé. Forse aveva portato la bestia a casa solo per distrarre la nostra attenzione, e non funzionava. Si rese conto che forse era necessaria qualche spiegazione, o di fare le presentazioni.
“Questo è Happy,” disse. “Lui ora vivrà con noi.”
Perlomeno fu stabilito che si trattava di un maschio, e che aveva un nome. Mamma ruppe il silenzio. “Gli va bene un’altra banana per cena, o devo dire ai ragazzi di aggiungere un posto a tavola?”
Papà ci dovette pensare. “Aggiungete un posto, suppongo.”
Fu una cena scomoda, ma lo sformato di tonno e spinaci risultò un cibo gradito per Happy. Sapeva mangiare col cucchiaio, e non faceva troppo casino.
Mia sorella provò a prendere la ciotola della macedonia. Non aveva senso, chiedere a uno scimpanzé di passargliela. Lui per un pelo non le morse la mano. Forse lei si pisciò addosso, c’era quell’odore.
“Dovete fare attenzione,” disse Papà. “Happy non è come le scimmie che avrete visto in tivù o al circo.”
C’era una stanza per gli ospiti in casa. Ogni tanto venivano a visitare amici dei nostri genitori. Queste visite generavano sempre delle feste scatenate. Non capivo come si erano conosciute tutte quelle persone, o cosa avessero in comune. Mamma e Papà erano sempre parecchio silenziosi, dopo una festa, e tendevano a evitarsi ancora più del solito.  
Happy non fu messo nella stanza per ospiti. Papà gli sistemò una stanza-dentro-una-stanza-ma-senza-pareti nel garage. Segatura sparsa per il pavimento di cemento levigato, e un mucchio di vecchi panni su cui annidarsi. Scarti tessili di tutta la famiglia, con inclusa la collezione di vecchie mutandine della mamma, frammiste a cenci recuperati dai bidoni posti fuori dall’immenso magazzino dell’Esercito della Salvezza vicino alla ferrovia. 
Lo scimpanzé si coricava e svegliava più o meno al nostro orario. Per un po’ pensai che eventualmente avrebbe progredito al punto di venire a scuola con noi. Inventai storie per spiegare lo scimpanzé che era più o meno nostro fratello. Papà lavorava al circo, o allo zoo, oppure faceva l’esploratore. I genitori pelosi della povera bestiola erano morti tragicamente nel rogo della tenda, o della giungla, oppure erano stati calpestati per sbaglio da elefanti. Per forza l’abbiamo dovuto adottare.
Secondo Papà, non c’era bisogno che Happy frequentasse la scuola. “Sa già tutto ciò che deve sapere.”
Mi resi conto di non sapere nulla di ciò che mi occorreva sapere. Trovare un posto per vivere, cercare impiego, guadagnare soldi, risparmiare tali soldi per qualche ragione, incontrare un’altra persona, mettere su famiglia...non avevo alcuna idea di come si facevano queste cose. Non chiesi mai perché dovevo andare a scuola. Non era divertente andare ogni giorno allo stesso brutto edificio e frequentare le stesse persone, che mi stessero simpatiche o meno, per imparare a fare lavoretti che mi sembravano futili e risolvere problemi che chiaramente erano già state risolte.
Una volta, fissai lo scimpanzé. Volevo cercare di capire cosa frullasse in testa a una creatura all’apparenza non troppo diversa da me ma che sapeva tutto ciò che doveva sapere. Gli occhi di Happy sembravano interamente composti da pupille, senza centro, affascinanti. Era come se uno specchio ti rimirasse per esprimere pensieri del tipo, forse ti assomiglio ma non siamo gli stessi. So cose della vita e della natura che non capirai mai. Forse sono più piccolo, e non riesco a formare parole per condividere i miei pensieri misteriosi e ineffabili, ma se ti afferrassi per le caviglie, probabilmente ti potrei strappare in due. 
La pelosa riflessione si dissolse e lanciò una carica fulminea, con tanto di risata maniacale e zanne lampeggianti. Papò riuscì appena a trattenere Happy, afferrandolo per la cintola dei calzoncini celesti. “Ehm, forse è meglio se non lo guardi così direttamente. È segno di aggressione.”
Non mi ero ancora imbattuto nell’aggressività animale. A parte quella volta che Big Mary la bulletta mi buttò a terra nel parco giochi dietro la scuola e disse che mi avrebbe risucchiato gli occhi dalla testa. Ma non lo fece. Mi baciò sulla bocca, come fanno gli adulti nei film. Ci stavano guardando tutti. Big Mary disse, “Eh sì baby, ora io e te siamo fidanzati per sempre.”
Le ragazze portarono le manine al viso per nascondere le ghigne di finto stupore. I ragazzi urlarono dài, che aspetti a gonfiarla di botte? Eventualmente riuscii a levarmela di dosso e le mollai un cazzotto al bicipite. Una maestra vide l’ultima fase della mia fuga e venni punito per aver picchiato una ragazza. Mentre venivo trascinato via da Miss Ottmayer la maestra di educazione fisica, feci l’errore di guardare indietro. Big Mary strizzò l’occhio, a gesti segnalò io e te, poi mostrò la lingua incredibilmente lunga e rossa.  
Nonostante avessi voglia di blaterare drammi di famiglia a scuola, pensai che era meglio non far sapere in giro che in casa nostra abitava anche uno scimpanzé. Forse ci avrei fatto bella figura. Potevo invitare tutti da me per ridere della scimmia. Ma Happy era una sorta di fratello. Non si invitano gli amici a visionare il fratello dalla faccia deforme, o nella camicia di forza perché tende a grattarsi a sangue, prendersi a morsi e strapparsi i capelli, o costretto nel polmone d’acciaio. 
Un giorno Mamma mi chiese di aiutarla a portare due sacconi pieni di cose molli e pesanti su nell’attico, un posto che non visitavo mai da solo. 
“Cosa fa di lavoro, Papà?”
L’avevo colta di sorpresa. Aveva la guardia abbassata. “Beh sai,” disse lei. “Lavora in ufficio.”
“Bene ma in che tipo d’ufficio?”
“Pieno di scrivanie, sedie e telefoni.” Nemmeno lei sapeva cosa faceva Papà, oppure non voleva dirlo.
“Dov’è quest’ufficio dove lavora?”
“Beh sai...in centro. Dove stanno tutti gli altri uffici e grattacieli. È lì che lavora la gente, in centro.”
“Devo lavorare in ufficio anch’io, da grande?” M’immaginai vestito di un completo grigio, che portavo a casa un corvo o una capra per stupire mia moglie, che forse era Big Mary, e un gruppetto di ragazzi di cui non riconobbi nemmeno uno, ma sembravano appartenere al posto dove tornavo dopo il lavoro in ufficio. Non riuscivo a immaginare ciò che facessi in quell’ufficio, però. Quell’attività segreta stava nascosta in qualche meandro del misterioso futuro.
Mamma sistemò il saccone che aveva trascinato su per la scala pieghevole in un angolo dell’attico. Non c’erano ragnatele da nessuna parte, notai. O Mamma veniva a pulire lassù quando noi eravamo a scuola e Papà era al suo ufficio e Happy lo scimpanzé faceva ciò che fanno le scimmie nei garage, oppure anche i ragni evitavano quel posto. Non sentì la domanda, oppure non voleva che sapessi che non sapeva rispondere. 
“Hai mai lavorato in ufficio, Mamma?”
Prese il saccone che avevo issato io, e lo sistemò accanto all’altro. I sacconi stettero lì come due barboni obesi svenuti in qualche austera cella, legati in cima come salsiccie. La luce del tramonto si rifletté sul viso di Mamma mentre considerava il loro piazzamento.
“Prima di conoscere tuo padre,” disse, “frequentai l’università perché volevo fare l’architetto. Costruire case, sai, dove possono vivere persone.” Da come lo disse, sembrava un sogno distante e impossibile. “Poi incontrai tuo padre a un cocktail e nascesti tu.”
I bambini nascevano dai cocktail. I bambini si presentavano dopo le feste per proibire che si avverassero meravigliosi sogni di carriera. Poi quando i sogni erano bell’e distrutti e Mamma si trovava a lavorare in una casa che non aveva costruito e Papà in un ufficio che nessuno aveva mai visto, appare uno scimpanzé. Ma sarebbe potuto succedere al contrario. Torniamo da scuola, Papà torna dall’ufficio, ed ecco la Mamma che accudisce un unicorno con tre occhi. 
I vicini erano meravigliati che una scimmia antropoide abitasse nel nostro garage priva di macchine. Era già abbastanza strano che Mamma e Papà non avessero l’automobile. Papà, nel suo completo trebottoni, andava e tornava dalla stazione dei treni sulla sua bicicletta cigolante. Spesso portava con sé Happy. Lo scimpanzé aveva uno spiccato talento per stare in equilibrio sul manubrio, ma non si alzava mai sulle mani né giocolava con banane né faceva altre bravate da circensi. Teneva il grugno peloso chino in avanti come un faro, con gli occhi sgranati, per acchiappare a morsi sfortunati insetti volanti. 
Vedevo Papà con Happy a girare per un labirinto di uffici. Papà presentava lo scimpanzé alle segretarie per iniziare discorsi. Ehi guardatemi, sono un padre responsabile, più o meno, solo che preferisco non far sapere ai figli umani ciò che faccio tutto il giorno. 
Può darsi che anche Happy lavorasse in centro. Forse scuoteva la tazzina delle mance per qualche fisarmonicista baffuto, o faceva il modello per i calendari di un’azienda che importava banane, o per i cartelloni pubblicitari di una fabbrica di creme depilatrici. Papà era il suo manager, o il suo agente.
 Il signor Munger, nostro vicino di casa, stava tenendo d’occhio un micro-falò di foglie morte appena rastrellate quando vide una persona a tutti gli effetti normale che portava in bici una scimmia lungo la strada dove abitava. “Fa le cose a modo suo, questo è sicuro,” disse.
Mia sorella e io una volta spiammo i vecchi Munger attraverso la finestra del loro salotto, quando avremmo dovuto essere alla festa di Halloween delle sorelle McLaughlin. Mamma aveva fatto i nostri costumi, quindi non eravamo desiderosi di comparire tra ragazzi mascherati per bene con roba comprata nei negozi. Mia sorella era una zingaresca strega. Io ero il diavolo in un vestito d’ufficio accorciato a forbiciate. 
“Il diavolo è un elegantone,” disse Mamma. “È tutto ciò che so di lui.”
Eravamo convinti che i Munger nascondessero in casa un loro Happy. Quando scoprimmo che non era così, ne fummo scioccati, sorpresi e forse delusi. I Munger consumavano semplici cocktail. Parlavano tra di loro mentre mangiavano lo stufato che probabilmente non conteneva carne umana. Rigovernavano usando il sistema lei lava, lui asciuga, poi tornavano nell’accogliente salotto per leggere. Lei sfogliò un romanzo rosa; lui un giornale, poi la rivista Life.  
Non sapevamo ancora che osservare eventi potrebbe influire sugli eventi stessi. Eravamo sconvolti perché era chiaro che tutti al mondo erano normali e noi non lo eravamo perché Papà aveva portato a casa Happy. 
Con gli occhi spiritati, corremmo verso la casa dove impazzava la festa di Halloween. Musica R&B scaturiva dallo stereo dei Signori McLaughlin. Luci basse illuminavano alcuni primi goffi tentativi di accoppiamento.
“Buh!”
“Yah!”
Satana e una delle sue fedeli streghe irruppero nella festa, urlando e agitandosi come indemoniati, spaventando a morte tutti quanti. Ma stavamo solo ballando. Sudati, convincemmo tutta l’orda mascherata che sarebbe figo bombardare la casa dei Munger con carta igienica bagnata, e il tergicristallo della loro bagnarola con uova. Uscimmo fuori nella notte come uno sciame di pipistrelli idrofobi, per distruggere senza motivo né avvertimento. I Munger non seppero mai perché.
Essere normali ha il suo prezzo.  
A Happy venne la peluria bianca sulla schiena quando dovetti cominciare a pensare di radere i primi mortificanti peli su labbro e mento. Papà mi porse gli strumenti necessari e un deodorante. “Sai già cosa avviene tra uomini e donne, vero? Devi averne sentito parlare in palestra, o per strada, visto delle riviste...non so...”
“Ti viene duro e glielo infili dove fà pipì?”
“OK ne sai già più di me.”
“Ma da dove è venuto Happy, Papà? Tu e Mamma avete...”
“Ognuno è responsabile della propria felicità. Devi fare le tue proprie decisioni e poi accettare le botte, se arrivano. Ma le ricompense possono essere grandi, se azzecchi, e...beh, dirò solo questo.”
Fu di parola.
Papà portò Happy con sé al lavoro, il giorno dopo. Quella sera, lo scimpanzé si presentò a cena vestito non nei soliti calzoncini corti, oramai lisi e rattoppati, ma in uno strano smoking da negozio per turisti, dei pigiama stampati da fare assomigliare un pupattolo umano a Fred Astaire o Gary Cooper.
“Oooh,” disse mia sorella. “Happy è innamorato. Happy si sposa.”
Forse guardai Papà come se mi aspettassi spiegazioni. Forse prima me ne sarei aspettate, ma eravamo oramai avezzi a spiegazioni negate o inespresse. Come ci eravamo abituati al tristo tanfo di primate che riempiva il garage.
Stavolta Papà parlò, piano. “Happy invecchia più rapidamente di noi.”
Lo scimpanzé sentì il suo nome, e prese introspettivamente a scaccolarsi il culo.
“Dovremmo prepararci,” continuò Papà, “per quando giungerà la sua ora. Mentalmente, intendo.” 
Mia sorella mi guardò. Si unirono i nostri fumetti del pensiero. ‘Oh siamo pronti. In qualsiasi momento, siamo pronti.’ Era difficile capire cosa pensasse nostro fratellino. Prima che arrivasse Happy, mi era sembrato la creatura più misteriosa della terra. Andavo dritto alla sua culla, quando tornavo da scuola, per prenderlo in braccio e fissarlo negli occhi. Chi sei? Da dove vieni? Cosa pensi? Stai imparando? O forse sai già tutto ciò che devi sapere.
Non batté mai ciglio, né perse interesse. I nostri occhi si trasformavano in buchi neri che colavano dentro altri buchi neri. Scopersi che anche mia sorella scambiava sguardi col poppante. Non sapevamo che non era nulla di originale, ma un processo biologico chiamato imprinting. Stavamo stabilendo la dominanza. Sono nato da uova più fresche e ho bevuto il latte materno più forte, bamboccio. Quindi sei sottoposto a me, ora e per sempre.
Con Happy non se ne parlava nemmeno, di fare giochi del genere. Qualsiasi tentativo di cogliere il suo sguardo, o di fissarlo, suscitava ringhii pregni di significato. Continua così e ti puoi aspettare una carica a pelo ritto, 40 kg. di solido muscolo ferino, denti canini plasmati dalla natura per traforare crani umani e risucchiarne i contenuti. 
Se Papà era nei paraggi, urlava, “Lasciatelo stare.” Osservate come Happy si fà quasi sempre i propri scimmieschi affari. Imparate dal suo esempio.  
Happy fissava le mosche che gli ronzavano attorno durante il giorno, e le zanzare di sera. Strappò insetti dall’aria con sbalorditiva velocità e letale precisione, come un King Kong rimpicciolito a caccia di biplani. Li divorava con appetito infinito e acritico.
Happy dava meravigliosi massaggi al collo e grattate alla schiena, a patto che ti avvicinavi piano, dandogli le spalle. Mi tollerava. Con mia sorella invece ci dava dentro. L’annusava per bene prima di mettersi all’opera. 
Forse non dovresti fare così, l’avvertì Papà, quando la reazione favorevole di Happy si fece ovvia attraverso il suo strano completo da funerale. Happy è predisposto a roba biologica che tu ancora non sapresti gestire. Cose che forse abbiamo fatto io e Mamma per fare voi, solo che nel vostro caso non funzionerebbe perché le antiche leggi della natura proibiscono frutti inter-specifici potenzialmente interessanti. Vedevo mia sorella che andava verso l’istituto per ragazze-madri di scimmiette, col vergognoso fardello avvolto in un plaid.
Happy si guadagnò una rarissima punizione da Papà quando il primate si avvicinò a mia sorella senza invito, colpendosi il petto e presentando il segnale bananiforme degli amori. Non successe nulla di drammatico. Niente urli o sculaccioni con un giornale arrotolato. Papà lo afferrò per la cintola e per il collare, e lo portò alla sua stanza nel garage. Nessuno disse, male. Nessuno disse, sbagliato.
Mamma disse, beh non ci ha mai provato con me. Non si capiva se era sorpresa o leggermente offesa. O se stesse parlando di Happy o di Papà.
Zia Floydine telefonò la settimana prima che finisse la scuola per chiedere se volevamo venire io e mia sorella a passare almeno parte delle incombenti vacanze estive nella sua casa a Las Vegas la favolosa. A Mamma sembrò un’ottima idea. “Ma niente casinò, per favore,” disse lei, nel microtelefono. “Sono ancora bambini, in fondo.” 
Ma i casinò erano l’ultimo pensiero di Zia Floydine. Giochi d’azzardo, o divertimenti di alcun genere, non erano la sua idea di ferie proficue. Il giardinaggio invece sì. 
Agghindata da stella del cinema, mi porse un badile e una zappa. Mia sorella si beccò un rastrello. Zia Floydine indicò con la mano guantata di satin l’ampio stralcio di deserto che finiva all’orizzonte ed era il suo giardino. Mi chiese quanto tempo ci sarebbe voluto per trasformare quella brulla desolazione in un giardino Zen pieno di cactus. 
“Ci vorrà un sacco di tempo,” dissi, e mia sorella condivise questa stima conservatrice. 
Sviluppammo muscoli e calli. Ci abbronzammo come dei cowboy. Io ripulivo il terreno e scavavo le buche per conficcare saguari e agavi, nei posti che sceglieva mia sorella. Era anche responsabile di scavare pietrine bianche da sottoterra, lustrarle e rastrellarle per suggerire vortici e gorghi di nuvole, correnti e maree dal punto di vista di Dio. Un signore messicano col trattore arrivava ogni tanto per consegnare le torreggianti piante grasse irte di spine dal vivaio.  
Zia Floydine era una cuoca fantasiosa. Combinava prelibatezze inaspettate, previamente inesistenti, e al tramonto ci versava cocktail con dosi adolescenziali di rum. Si abbonava a riviste dedicate all’aspetto che dovrebbero avere giardini, case e persone in un mondo ideale. Voleva fare la sua parte per realizzare questo paradiso colorato ai bordi di una paesino di bovari che si stava trasformando in Luna Park per giocatori incalliti e perdenti vari.
All’avvicinarsi della nostra data di partenza, Zia Floydine ispezionò il suo giardino compiuto e ne fu contenta. Ci portò allo Strip nella sua Cadillac decappottabile e ci comprò nuovi vestiti, garantiti per renderci completamente ridicoli, dalle nostre parti. Ma per un indimenticabile pomeriggio ci fu concesso di assomigliare a cowboy stelle del cinema e spendaccioni.
All’aeroporto ci diede una manciata di banconote di grosso taglio a testa.
“Nascondete i soldi,” disse. “Non date da intendere che avete un gruzzolo per le giornate di pioggia, che arrivano chissà quando.”
Sembravano impossibili, le giornate di pioggia, finché riuscivamo a stare aggrappati a lei. Volevamo restare nel deserto, farle per sempre gli inservienti da giardino, ma tale felicità non era nei programmi.
Una sorprendente triade ci aspettava all’aeroporto di arrivo. Papà portava un insolito cappello. Insolito per lui, intendo. Il cappello era normale, non una fruttiera stile Carmen Miranda, ma non usava mettersi copricapi. Mamma si era messa occhiali da sole neri, da gangster. Il nostro fratellino, che nella nostra assenza era evoluto dalla prima infanzia, curiosava in giro in salopette da micro-contadino. 
Niente scimpanzé.
Non chiedemmo, dov’è Happy?
Dopo una breve corsa in tassì, sul treno, Papà disse che Happy era rimasto vittima di un incidente. Aveva fatto la corte a una delle sorelle McLaughlin. Non era chiaro se Happy morì schiacciato da un’auto quando la ragazza attraversò di corsa la strada per sfuggire alle sue attenzioni indesiderate, o se gli avesse sparato il sig. McLaughlin. Non importava. Ci eravamo persi il funerale, e la sepoltura in un angolo del giardinetto dietro casa, sotto l’acero dove non si era mai arrampicato, magari solo perché gli aceri non danno frutti che piacciono alle scimmie. Comunque era stato goloso di pancakes col succo d’acero. 
Papà non portò mai a casa un sostituto scimpanzé.
Quando ero destinato a nord per frequentare l’università, Papà mi accompagnò alla stazione degli autobus. Mamma e mia sorella piansero, e la loro tristezza mi riempì d’amore. Ma restarono a casa perché in televisione davano un cartone animato che nostro fratellino trovava più divertente che vedermi partire. O forse un film di Tarzan. 
Papà mi strinse la mano prima che salissi sulla corriera. “Sii un uomo indipendente,” disse. “Sii forte. Sii felice."

Matthew Licht

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