Sono stata sposata una volta.
Un ragazzo gentile con una cinquecento blu. Un pomeriggio, come tutti i
pomeriggi di quel tempo scandito dalla sensualità, ci eravamo avventurati nella
boscaglia umida delle colline rimanendo impantanati; chiedemmo aiuto ad altri
ragazzi, nudi come noi, ma comodi in una 4x4. Terrorizzati, un altro pomeriggio
d’inverno, siamo scappati dalla stessa zona, un po’ più a valle però, per via
di uno che si era messo a guardare. Erano i giorni di Firenze e dei suoi amanti
violati. Ci andammo a rivestire sotto le luci arancioni di un locale poco
distante, quello frequentato dai ragazzi più grandi. Mia sorella andava spesso
a ballare lì. Ancora, la domenica pomeriggio, potevi andare in discoteca.
Ricordo la prima volta che di domenica siamo andati. Era caldo, forse
primavera, si stava bene senza il giubbotto, tanto che rimanemmo fuori sul
muretto a baciarci tutto il tempo. Più di dieci anni siamo stati insieme,
contando anche quelli della convivenza da contratto, affollati di gente, amanti
e valium. Questo è quello che ricordo. Un ragazzo gentile. Ci siamo presi anche
a schiaffi e calci. Che ne sarebbe della gentilezza senza la sua totale
assenza, senza il campionario completo di specialità umane che la nostra
irriducibile razza può vantare. Dopo uno scontro verbale, non necessariamente
volgare, è la gentilezza che riconduce ogni parola al suo reale stato di peso
sul respiro, ogni gesto alla matrice di lama che falcia il vuoto. E’ la grazia
che conduce all’intelligenza, c’è poco da fare. Si addice a chiunque, nessuno
riuscirebbe a sembrare fasullo; gli stronzi, invece, quando sono vecchi, maturi
diciamo, sono sempre inappropriati, goffi. La cattiveria è in esaltazione nella
giovinezza, in questa si perfeziona, scorre e si esaurisce. Perché ad un cero
punto si diventa vecchi e se ancora non si è stanchi di fare i cattivi, non
siamo che dei coglioni e, a pensarci, lo siamo sempre stati. Poi c’è stata
un’altra relazione, anche questa durata un po’ di anni. Un ragazzo bellissimo.
Un pomeriggio, come altri di quel tempo scandito dalle droghe, ce ne stavamo
tranquilli e rimbambiti a mangiare l’ottima zuppa di legumi e cereali misti che
ero solita preparare. Con tanto peperoncino e un po’ di curry. Per farla
brevissima, lui crollò con la faccia nel piatto bollente. Perse coscienza
all’improvviso, non si svegliava più. Cercai di farlo stendere, era pesante, lo
afferrai per le spalle e lo spinsi giù dalla sedia. Un gran tonfo. Gli gettai
addosso dell’acqua urlando, niente, non si riprendeva. Cominciai allora a
schiaffeggiarlo e urlavo e colpivo e finalmente riaprì gli occhi. Aveva qualche
problemino con l’alcol e stava cercando di risolverlo aiutandosi con l’alcover,
un miscuglio fornito dal sistema sanitario. Micidiale. Uno sciroppino capace di
farti sballare come niente. Sempre più spesso lui ne abusava. In quel periodo
chiunque frequentasse casa si abbeverava alla bottiglietta. Il patto era che
mai avremmo chiamato l’ambulanza, mai. Abbiamo fallito come tossici e come
aspiranti suicidi. Ci trasferimmo in un paesino alle porte dell’Appennino,
lasciandoci dietro una scia di debiti e menzogne. Uno di quei posti dove chi
non è del luogo sta lì per espiare. Eravamo circondati da un branco di ex
qualcosa. Tutto era ricoperto di neve e immacolato al mattino presto. Mi
insegnò a fare le impronte col pugno, ricordo che ne rimasi affascinata,
davvero sembravano i piedini di un neonato in giro per i boschi. Un ragazzo
bellissimo. Da quelle parti producono grandi quantità di ottimo vino.
Annamaria Travaglini (testo)
Carlo Zei (immagine)
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