la possibilità di un racconto
E all’improvviso avevo incontrato il cielo che sembrava fatto di sabbia. Il deserto nel cielo, dove non c’era salvezza, dove nessuno sarebbe mai venuto a salvarti, ad afferrarti per un braccio e portarti via.
Girata la curva, sotto quella vuota immensità sentii un palpito di terrore e pensai a me stesso da piccolo, ai miei amori impossibili, quando m’innamoravo di qualche attrice dei telefilm e passavo i pomeriggi in uno stato di malinconia di un di un bruno chiaro e denso come caramello. Mentre la notte, la notte entrava il terrore nella sua cameretta, venivano a trovarmi delle condizioni, delle sensazioni, delle dimensioni piuttosto, quelle cose che ora mi si stagliavano dinnanzi, l’essenza di una solitudine con non riuscivo a pensare, a tenere dentro la mente, potevo solo raffigurarmela attraverso delle immagini che mi atterrivano.
Ricordai le notti insonni a fissare una stampa, quando dormivo a casa di mia nonna, in cui un uomo di spalle con un grosso cappellaccio nero stava accovacciato tra due alberi dinnanzi brulla, nuda distesa di terra; giusto qualche cespuglio in lontananza tentava d’interrompere il niente che si perdeva a vista d’occhio.
Una infinità di volte avevo immaginato la disperazione di quella persona là, sola, che non si sarebbe mai decisa ad attraversare la desolazione. A volte invece, quando mi trovavo nel bel mezzo della notte, credevo che quel signore fosse una presenza malefica che mostrava cosa attendeva gli uomini, cosa insomma fosse la vita, la distesa silenziosa che sarebbe toccata a tutti, eternamente pronta a farsi attraversare.
Pochi passi sull’erba folta e scura e già il cielo sembrava un altro, aveva cambiato tonalità, si era animato, come succede a certi malati durante le ultime ore di agonia; un disperato rosso Via col vento che pareva suggerire che là, da qualche parte lontano sarebbero successe cose importanti. Una promessa non di desolazione ma di epopea, di destino, di cammino verso qualcosa; una meta, una ricerca, una futuro, una verità. Guardai in basso la rete metallica, fitta e prosaica rispetto al resto, e dietro un bambino biondo e tarchiato che si esercitava col lancio al martello; gira, dai continua, gira… gira …. Gira… mi fermai ad osservare quel movimento greco. Per un attimo ebbi l’impressione di guardare un frammento balzato fuori da un poema scritto tremila anni prima; il gesto disperato del guerriero che scaglia un macigno di leggendaria pesantezza contro il nemico, l’ultima arma a disposizione. E anche il movimento, quel disperato attorcigliarsi e girare su se stesso, come se tenesse un turibolo colmo d’incenso, acquistare man mano velocità e potenza, c’era una qualità antica in quel armonioso contorcimento e il ragazzino aveva l’aria seria, concentrata ma anche molto triste. Sentiva, ci avrei scommesso, che a causa di quel corpo robusto e compatto doveva comportarsi sempre come un ometto, uno forte, e si vedeva che non ne aveva voglia, che essere un’aspettativa, quel tipo di aspettativa per gli altri non gli piaceva. Ebbe modo di vederlo più da vicino, un viso bellissimo, occhi allungati e i capelli pettinati in avanti come un Cesare, grossi capelli di un biondo opaco.
Il rossore del tramonto si faceva sempre più drammatico, ce la metteva tutta per non cedere ma pareva venir risucchiato dalla terra lontana. Tra breve il buio, tutto avrebbe suscitato agli adulti malinconia e ai piccoli paura. Luci dalle finestre apparivano qua e là, dalla palestra uscivano grida di adolescenti e un bambino che stava rincorrendo la mamma e il fratello trascinava per terra, come l’anima di un cadavere, il suo k-way rosso. Gente tornava a casa, io lento correvo e ascoltavo il lieve rumore di falciatura che producevano le scarpe a contatto con l’erba e sentivo, mentre mi guardavo attorno mi resi conto che i miei occhi, i miei occhi interiori erano stanchi, assopiti, non riuscivano più a dare una forma alle cose, di scorgere un insieme misterioso e possente capace di farmi sentire un tintinnio di magia in fondo a me stesso.
Stavo invecchiando, come spesso mi ripetevo, per quanto non sembrassi così vecchio, tuttavia i pensieri dalle campiture ampie era da tanto che ormai non ne facevo, come fissare quel groviglio verde nero e sentire una fitta fiabesca al cuore, una possibilità di racconto. Oltre il campo c’era un boschetto dietro cui il rosso del cielo filtrava proiettando le ombre degli alberi in un nulla che si trovava tra me e il boschetto; un tempo sarei rimasto una mezz’ora a guardare quello che per me era uno spettacolo, una lanterna magica che una serie di elementi avevano casualmente attrezzato. Guardai sopra, cercavo i pezzi della mia anima che avevano smesso di ruggire e guaire. Ero solo un semplice blocco di marmo e la mia tristezza era diventata omogenea; chissà se è questo ciò che chiamano crescere. Triste come tutti gli altri, portarsi un tumore bianco, enorme, che ti assorda e intorpidisce e al quale non fai più caso se non quando stai per morire sul serio.
Filippo Belacchi
leggendolo ci si sente come in prigione
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