lunedì 2 luglio 2012

Il parrozzo


Salì in treno e cercò uno scompartimento vuoto. Rifletté un attimo sulla direzione che avrebbe preso e si sedette dando le spalle alla locomotiva, vicino alla finestra.
 Gli piaceva vedere la città mentre si allontanava. Guardò la stazione e dovette ammettere che era bella. Ventinove anni per costruirla, pensò amareggiato. Era la parte della sua natura meridionale che lasciava volentieri indietro. 
Fuori della finestra un signore non più giovane con un berretto logoro calzato in testa nonostante il caldo, gli faceva cenno con la mano. Tirò giù il vetro e si sporse fuori leggermente. L’uomo reggeva una scatola da scarpe legata con un nastro azzurro, in alto, sopra la testa.
“Meno male che ti ho trovato! Ti sei scordato il pacco di tua madre. Tieni, ‘papà’, sono calzoni con la ricotta e il pecorino come piacciono a te. Ho dovuto fare una corsa per raggiungerti. Ma non l’avevi vista la scatola? Era proprio sopra la valigia. Ho fatto una corsa: ho il fiatone, scusami.”
“Grazie papà”, disse allungandosi per togliergli la scatola.
Il vecchio gli sfiorò appena la mano ma la ritrasse subito, visibilmente imbarazzato.
“Niente, niente, figurati. Tua madre ci ha messo pure un piccolo parrozzo per il Dottor Martini. Ti ricordi che avevi detto che gli piaceva?”
“Ho detto che era l’unica cosa che conosceva di Pescara.”
“Come dici?”
“Ho detto che glielo darò, papà.”
“Senza fretta quando rientri in ufficio.”
La parola ufficio uscì dalla bocca dell’uomo scandita, quasi con reverenza. Era orgoglioso di questo figlio che aveva lasciato la terra per studiare, come avrebbe voluto fare lui a suo tempo.
“Si...quando lo vedo.”
“E’ da parte di tua madre. Da parte mia solo tanti saluti. D’accordo? Ricordatelo.”
Il padre non conosceva il signor Martini ma lo considerava un membro della famiglia perché aveva trovato una sistemazione al suo ragazzo. Anche se l’aveva portato via a Milano e non capiva perché non si potesse fare l’interprete a Pescara. In ogni modo, un buon posto era sempre un buon posto e il Dottor Martini era stato così gentile ad assumere il suo ragazzo senza neanche una raccomandazione.
“Hai visto che stazione?” Fece un gesto ampio con il braccio come un presentatore che introduce la prima donna.
“Ha la tua stessa età ma è sempre nuova. Marmo di Carrara! C’è perfino la scala mobile, hai visto? Pure Pescara cresce! Tra poco sarà come la tua Milano. Beh, stai attento. Quando arrivi chiama.”
“Arrivederci, papà.”
“Siediti, siediti che è salito il capotreno. Ricordati di chiamare quando arrivi, sennò la mamma si preoccupa.”
Il ragazzo chiuse il finestrino, mise la scatola sopra la valigia e si sedette.
Il padre stava fermo fuori con il berretto logoro calzato in testa. Guardava l’orologio, poi il treno, poi l’orologio. Quando sentì il fischio un sorriso gli illuminò il viso, e fece cenno al polso.
“Perfetto orario”, diceva la sua bocca mentre il treno singhiozzava in avanti, “chiama, ricordatelo.”
Il figlio accennò un saluto con la mano. Il padre diceva gesticolando, chiama.
Appoggiò la testa e chiuse gli occhi, aspettando che il padre con le sue premure si allontanasse da lui, come pure la città che odiava.
Quando uscirono dalla stazione, aprì gli occhi. Il treno passava dietro le case, tra i panni stesi e i giardinetti malconci pieni di gatte gravide, rubando tratti di vita da finestre spalancate, dove uomini in canottiera mangiavano soli davanti a ballerine mezze nude di programmi pomeridiani. Ogni tanto un bambino da dietro le sbarre di una terrazza faceva smorfie e gestacci, la bocca sporca di sugo.
Appena usciti dalla città i binari costeggiarono il mare dando una dimensione surreale alla corsa: la brezza salata arrivava fin dentro la carrozza e le onde schiumose schizzavano il vetro mentre il blu intenso riflesso illuminava lo spazio nel vagone gettando lunghe ombre. Qualche bagnante coraggioso giaceva mezzo nudo sulla ghiaia fredda offrendo come sacrificio le proprie pallide bellezze. Solo allora, quando l’aria di mare gli riempiva i polmoni si svegliavano in lui i ricordi dei tempi lontani. Alzò gli occhi e vide la scatola di scarpe, la prese, sciolse il nastro e l’aprì.
Avvolto in carta da pasticceria, sicuramente riciclata, c’era il parrozzo. Un biglietto diceva: Egregio Dottor Martini, Auguri di Buona Pasqua.
Scrutò la scatola piena di calzoni.. Sul lato, una busta con il suo nome scritto nella calligrafia incerta della madre attrasse la sua attenzione.
 “Caro figlio, siamo orgogliosi di te” diceva il biglietto; accanto, un ritaglio di giornale ingiallito con una foto di gruppo. Una freccia in matita rossa indicava la sua testa sfocata tra tante altre ad un congresso d’industriali italiani a Francoforte. La rigirò nelle mani – da dove diavolo veniva? La didascalia era in tedesco. Forse era opera della zia o della cugina. Scorse anche delle banconote: duecento mila lire – metà della pensione di sua madre.
Fu inondato da una rabbia improvvisa, travolgente. Aprì il finestrino e gettò il parrozzo tra le onde. Prese un calzone e se lo infilo in bocca. Non sentiva il sapore ma fu subito invaso da un senso di calma. Mastico con voracità e ne mangiò altri due coprendosi di briciole come quando si nascondeva nella cantina della nonna in montagna tra i fichi secchi e i prosciutti appesi. Solo, tra gli odori contrastanti di vaniglia e pepe, salsicce e mandorle sfogava le delusioni d’essere figlio unico, mai abbastanza bravo né abbastanza spigliato. Sempre il cugino troppo timido, impacciato; quello che non parlava mai. Forse per questo aveva voluto conoscere due lingue, per trovare le parole da abbinare ai sentimenti, ma era solo un vigliacco; era un codardo che aveva imparato a dare parole ai sentimenti degli altri ma non ai suoi. 
Gli interpreti, rise, anche il Martini comunicava ai dipendenti con biglietti scritti dalla segretaria. Erano proprio gli esperti della lingua! Avevano messo sotto assedio la Torre di Babele ma non l’avevano sconfitta.
Mangiò un altro calzone fissando le onde che con timidi affondi si avvicinavano al treno in corsa. Immaginò la faccia fiera del padre, il berretto logoro calzato in testa, che lo presentava agli amici: il figlio laureato, l’interprete che conosceva il tedesco come l’italiano, che aveva studiato anche sei mesi in Germania, lontano da casa, mentre lavorava nel ristorante della Zia.
Quante cose non aveva detto mentre traduceva le parole degli altri.
Ad un certo punto il treno entrò in galleria e si vide riflesso nel vetro della cabina: un uomo piccolo, piccolo, coperto di minuzzoli, muto, estraneo al mondo reale tanto quanto lo era stato da piccolo.
Appena il treno uscì dalla galleria squillò il suo cellulare. Era la segretaria del Dottor Martini. La speranza gli si accese improvvisamente:
“Buon giorno signor Sorgente. Le volevo comunicare che abbiamo qui il suo assegno. Lo può ritirare in segreteria. Inoltre, ha appena chiamato suo padre, credo volesse parlare con lei. Ha detto qualcosa riguardo a un panozzo per il Dottore...”
“Parrozzo! Si chiama parrozzo. Lei cosa gli ha detto?” 
“Ho detto la verità: ho detto che avrebbe dovuto chiamarla a casa, poiché non lavorava più qui…” 
Il ragazzo fissò le onde che con timidi affondi si lanciavano verso il treno. 
“Signor Sorgente?” Continuò la segretaria, “Signor Sorgente mi sente? E’ ancora in linea?”

Matilde Colarossi

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