Era di lunedì. La povera Susanna aveva lavorato fino alla tarda sera del venerdì precedente ed era schiattata sulla sua fedele Olivetti in un sussulto schiumoso. Riversa sulla scrivania da oltre due giorni, l'avevano trovata la mattina presto e subito avevano mandato a chiamare Piero perché venisse a ritirarla.
Fa la ronda ogni giorno, Piero, alle 10 del mattino e alle 5 del pomeriggio. Percorre i corridoi del Silver spingendo, con andatura stanca, una lettiga cigolante e verifica le condizioni dei presenti. Quelli vispi, concentrati in chilometrici calcoli o impegnati in conversazioni telefoniche, li salta con un sorriso e un vago cenno del capo, gli altri, chini sulla tastiera o fissi davanti al monitor, li interroga puntualmente: “Buondì Ingegnere – tutti ingegnereli chiama – come sta oggi?" Oppure: “Buongiorno Dottoressa – tuttedottoressa le chiama – oggi come va?” E le risposte sono sempre di questo tenore: "Piscio sangue, caro Piero, ma non mi abbatto! Con i miei 75, sono fra i più giovani del settore e non intendo andarmene, non prima degli altri!" Oppure: “Meglio, Piero: quel clisterino ha fatto miracoli, un vero toccasana!”
"Bravo Ingegnere! A domani, Dottoressa.” E prosegue il suo giro di angelo becchino rivolgendo a tutti sincere attenzioni.
Poco dopo l’alba, era giunta la chiamata per il ritiro immediato della già putida Susanna. Senza esitazioni, Piero era corso da lei, la Susi, dolce amica dei tempi andati, ancora bella per i suoi 79, sì, ancora bella. L’aveva sdraiata sul linoleum, dura e fredda come un sacco di cemento, le aveva scostato i capelli turchini dal viso, nettato la bocca agli angoli e sussurrato poche incomprensibili parole. Poi, chiusa nella cerata d’ordinanza, l'aveva adagiata sul carrello ed era sceso nei sotterranei per accompagnarla, in silenzio, all’ultima stazione.
Il regolamento prevede che le salme siano consegnate al terracielo subito dopo il loro rinvenimento. Piero, con l’aiuto di una forca idraulica, deve trasportare il morto imbustato attraverso il lungo sottopasso che collega il Silver al polo crematorio, deve suonare il campanello dell’unico portone e aspettare che l’addetto interno apra. L’ingresso è un vano ampio e spoglio, chiuso sui lati da porte di acciaio. Piero deve entrare senza oltrepassare quelle porte, trasferire il corpo dalla lettiga alla cucchiaia di reparto, voltare la schiena e andarsene.
Il personale del terracielo era ridotto all’osso: due alla frigoconservazione e due alla cremazione, mai in compresenza. Al ricevimento si alternavano in maniera del tutto casuale e, quando nessuno era disponibile, risolvevano inserendo il dispositivo di apertura automatica. Come se non bastasse, girava voce che ci fosse una tresca fra la capo reparto frigoconservazione e il capo reparto cremazione e che il polo fosse ormai fuori controllo.
Quel giorno il portone si era aperto al solo tocco del campanello, e Piero, eseguita la procedura, aveva dovuto lasciarsi la Susi alle spalle.
*
Al mio arrivo in ufficio, quel lunedì, la Susanna era già stata ritirata; di lei restavano solo le cataste di faldoni polverosi e l’infallibile calcolatrice. Ero in piedi, sulla porta della sua stanza vuota, e ripensavo ai 55 di servizio che aveva festeggiato pochi mesi prima ricevendo le congratulazioni e gli auguri di noi tutti. Ero in piedi, afflitta dalle giunture dolenti, quando un disgustoso odore di cadavere, come un’onda lenta e inesorabile, prese a espandersi nell’aria invadendo ogni cosa.
In pochi minuti, forse attraverso l’impianto di aerazione, il fetore si era diffuso per tutto il Silver provocando il caos generale: vomiti smodati, svenimenti, attacchi di panico.
“Che cosa succedeeee?!” Urlai, ma le zaffate investivano anche il mio stomaco inondandomi le fauci di acido filante e affogando lì ogni imprecazione. Il corpo della Susanna era sicuramente parcheggiato in qualche corridoio del terracielo. Sicuramente, mentre la dolce Susi si liquefaceva, quegli sciagurati si ricreavano nei locali dismessi dell'infermeria e, nello sfogo del loro amorazzo, trascuravano di prendere in consegna il nuovo arrivo. Vomito-resistente, invece di piegarmi ai conati, con pugni e mascelle serrati, ero scesa al sottopasso di collegamento, diretta al terracielo con un solo pensiero: farli a pezzi!
E’ fatto assoluto divieto, a tutti i dipendenti non autorizzati, di avvicinarsi al Polo Crematorio Terracielo. I contravventori saranno deferiti alla Commissione Interna di Vigilanza.
Con passo euforico, coprivo per la prima volta la distanza che separa il crematorio dal direzionale Silver. Ormai insensibile a dolori osteoarticolari di sorta, come in preda allo sballo del corridore, ero giunta davanti a un portone scuro che si era aperto alla sola pressione del dito sul campanello.
Come previsto, il puzzo della cara Susi mi aggredì senza pietà e dovetti cercare un’immediata via di fuga attraverso una pesante porta d’acciaio. I miei sensi, ricettivi come non lo erano più stati da anni, guidavano il mio corpo fiero. Col braccio proteso, aprivo ogni porta intendesse arrestare la mia incursione. Il polo era deserto, nessuno ai forni, nessuno alla sala celle, ed io proseguivo nella mia camminata assurda, determinata a stanare i boia.
Una porta di legno e vetro interrompeva bruscamente il carattere asettico del reparto e segnava il passaggio all’ala più vecchia del settore, l’ex infermeria. Attesi qualche secondo sulla soglia e sentii solo silenzio. Mi tastai la giacca per essere sicura di avere con me il telefono, poi entrai. Mettevo un passo davanti all’altro con la cautela del ladro e avanzavo sullo scricchiolio indolore delle mie caviglie.
“Ah, ah, ah, ah, ah, ah, ah, ah!”, fece una voce. Il camerone in cui mi trovavo terminava con una porta a soffietto semiaperta, comunicante con un corridoio quasi buio, bucato da tre porte bianche. Dalla più lontana, solo accostata, proveniva la risata.
“Ah, ah, ah, ah, ah, ah, ah, ah!”, di nuovo. A ogni risata, seguiva un intervallo silenzioso che si rompeva con la risata successiva, identica alla precedente. Giusto dietro la porta socchiusa, appoggiai il palmo, feci una leggera pressione e, “Ah, ah, ah, ah, ah, ah, ah, ah!”, la porta si aprì su una scena improbabile: un soggiorno con cucinino angolare, un televisore appeso alla parete e, seduti di spalle su un sofà di velluto, un tizio e una tizia, entrambi con cuffie sulle orecchie. Lui dormiva con la testa abbandonata all’indietro, lei guardava i pupazzi animati in tv e, regolarmente, piantava il gomito nel fianco del vicino prima di scoppiare nella solita risata. Lui in canottiera, lei in vestaglia, la stanza senza finestre odorava di caffè appena fatto.
“Che storia è questa?!” Ringhiai contro quei due mostri restando impalata sull' uscio. ”Come osate comportarvi in questo modo? Giuro che vi ammazzo! Luridi animali bastardi!”
“Ah, ah, ah, ah, ah, ah, ah, ah!” Nulla poteva distogliere la donna dai suoi beniamini pelosi né scuotere l’uomo dalla sua siesta.
Ero idrofoba. Volentieri avrei massacrato le loro infami teste a suon di spranga, volentieri avrei usato su di loro, fino a consunzione, la violenza accantonata in una vita. Respirai. Ossigenai. Considerai.
“Ah, ah, ah, ah, ah, ah, ah, ah!” E li lasciai lì, incapace di falciarli dal mondo.
*
“Passami il direttore! Non discutere, passami il direttore, adesso!”
Li aspettai nell'ingresso del polo, il direttore e i suoi scagnozzi, seduta a fianco della dolce Susi, preferendo le esalazioni stagnanti di lei al fresco aroma di caffè.
Annabella Ferrin
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