mercoledì 6 giugno 2012

Ghost Story


Si tratta di mettere in ordine le parole. Articolarle con calma, con chiarezza. Non aver paura di non riuscire a dire qualcosa di importante e di urgente. Attrarre l’attenzione e poi sillabare forte e chiaro, lentamente, senza troppa emozione.
D’altra parte, non sono un tipo emotivo. C’è stato chi mi ha trovato noioso per via delle mie abitudini, così regolari, immobili. Che posso dire, è vero, è la mia natura. La ripetizione mi rilassa e le consuetudini mi danno sicurezza. In un’era dominata dall’incertezza ho sempre trovato la possibilità di crearsi delle abitudini una forma di lusso.
Chissà, se la mia vita fosse stata più caotica e imprevedibile non mi troverei in queste condizioni. Ormai nulla distingue le mie giornate, tranne questo momento, questo quotidiano e urgente tentativo di esprimermi con chiarezza, ma non c’è nulla ormai che possa cambiare le cose, ovviamente.
Coloro che misurano il proprio successo dalla possibilità di continuare a fare quello che si è sempre fatto forse capiranno perché, quando il mondo reale si è affacciato nella mia vita per la prima volta, io non abbia dato alla cosa alcuna importanza. La concretezza delle cose familiari vince sempre contro la nebbia del Reale. E quando il Reale arriva, lo ignoriamo, o lo dimentichiamo assimilandolo subito al Normale. Così, quando dopo trent’anni di sonni pesanti e tranquilli, privi di sogni o di interruzioni notturne, qualcosa in quella buia mattina invernale mi svegliò con violenza, io mi affrettai a razionalizzare. Mi svegliai, sentendomi scuotere per la spalla con urgente energia, mentre una voce sussurrava che era tardi, che dovevo alzarmi, subito. Naturalmente saltai giù dal letto spaventato. Ma come sempre succede in questi casi che so non essere infrequenti, la luce del mattino cominciò presto a dare il giusto senso alle cose e attribuii quegli scossoni ad una cena indigesta, o ad un sogno vivido già dimenticato che conteneva quell’urgenza.
Tuttavia l’episodio mi rimase in mente per qualche tempo, domandai persino in giro se fosse possibile che la forza di un sogno potesse scuotere con tanta violenza il mio corpo supino. Naturalmente tutti convennero nello spiegare il fatto con sogno particolarmente intenso e anch’io finii per ridurre nella memoria l’entità delle scosse e la chiarezza della voce, fino a convincermi che non era successo niente di anormale. Capisco ora come avessi solo fretta di tornare alle mie abitudini.
Un’altra mia abitudine era quella, la mattina, di spostarmi fra la camera da letto e il bagno, dopo aver fatto la doccia. Mi alzavo, facevo subito colazione, poi mi spogliavo in camera da letto e andavo nel bagno all’altro lato del mio appartamento. Non è mai stato un problema, nessuno mi può vedere, vivo da solo in cima ad una collina. Dopo la doccia gettavo l’asciugamano sul letto, andavo a lavarmi i denti e a farmi la barba, poi tornavo per vestirmi, ripiegare l’asciugamano e riporre il pigiama. Ogni giorno, sempre la stessa sequenza di gesti, eseguita nello stesso modo, immancabilmente.
Ma passate un paio di settimane dall’episodio che avevo attribuito ad un sogno, qualcosa cambiò. Un giorno, tornato in camera, dopo essermi sbarbato e lavato i denti, trovai il pigiama e l’asciugamano sul letto, piegati ed in perfetto ordine. 
Questa volta la paura mi prese sull’uscio della camera, come una contrazione dello stomaco, una debolezza delle ginocchia. Qualcuno aveva ripiegato le mie cose e le aveva riposte sul letto ordinatamente, questo era fuori discussione. Non ero stato io, anche di questo ero sicuro. In casa non c’era anima viva a parte me, e questa era la terza e ultima cosa di cui potessi dichiararmi assolutamente certo. Improvvisamente mi tornò in mente lo scuotimento nel letto di due settimane prima e mi sembrò subito che le due cose fossero connesse. Comunque la rigirassi pareva evidente che qualcuno che non era una persona in carne ed ossa si aggirasse per casa mia.
Quando una persona scettica e distaccata, abituata per natura ed educazione a ragionare razionalmente, quando una persona così cede di fronte all’indedicibilità delle cose e all’incomprensibilità del mondo di solito lo fa in modo improvviso, rovinoso e irreversibile. Esattamente questo capitò a me, così mi ritrovai a formulare ipotesi sempre più fantasiose sulla natura e volontà della presenza che mi ritrovavo in casa. La conclusione mi parve assolutamente plausibile: dato che vivevo in un ex-convento vecchio di cinquecento anni e dato che a tutti gli effetti l’attività di quell’essere consisteva nel mettere in ordine cose e svegliarmi all’alba, non poteva trattarsi che di una suora. Una operosa e, a ben guardare, benevola suorina abituata ad una vita di ordine e operosità che continuava a fare le stesse cose, anche da morta.
Cominciai a considerare la suora come un’abitante regolare della casa, in effetti a maggior diritto di quanto lo fossi io, se non altro per una questione di anzianità. Ogni volta che trovavo qualcosa disposto in un ordine particolare o riposto con particolare attenzione, se non mi ricordavo di essere stato io le attribuivo senz’altro quella cortesia. La suorina diventò una presenza gradevole e non ingombrante nella mia esistenza solitaria. 
A volte fra il serio e il faceto riferivo con piacere della “mia” suorina agli amici e godevo della loro incredulità nel sentire raccontare proprio da me una storia di fantasmi, detta senza la minima ironia. Insomma, sembrava proprio una felice coabitazione.
I mesi successivi a quell’episodio furono più sereni del solito, mi sentivo meno solo. Arrivai persino, per una forma di considerazione e di pudore, ad evitare di girare nudo per casa e a chiudere la porta della camera da letto prima di svestirmi, come se facesse qualche differenza. Ero più accurato del solito nella cura di me, quasi dovessi quotidianamente superare l’esame di un attento osservatore. Facevo meno rumore, ero più ordinato, sedevo composto a tavola, mi davo degli orari, correggevo le mie abitudini, cercavo insomma di guadagnarmi il rispetto se non addirittura l’affetto della mia invisibile suorina.
Tuttavia, nello spazio confortevole del mio ritrovato equilibrio c’era, sebbene piccolissima, un’area buia. Era solo un trascurabile disagio ma si ripresentava ogni giorno, per un breve attimo, prima di andare a letto.
Ho già detto come io sia una persona amante delle proprie abitudini, gesti ripetuti che scandiscono i vari rituali della giornata. Uno di questi consisteva nel riporre il mio pigiama su una sedia accanto alla porta della camera da letto. Dopo le consuete abluzioni serali, rientravo in camera da letto, chiudevo la porta, prendevo il pigiama dalla sedia, lo indossavo e mi coricavo.
Ecco, da qualche tempo, quando chiudevo la porta della camera e raccoglievo il pigiama, sentivo un impulso, irrazionale ma profondo, di allontanarmi subito da quella porta, come se, dietro di essa, qualcosa di maligno e ostile stesse in agguato. 
Questa sensazione si ripeteva ogni sera. Appena chiudevo la porta, afferravo il pigiama e mi allontanavo dalla porta con una certa fretta. Capitò qualche volta che dovessi andare in bagno durante la notte e mi ritrovai a ponderare se fosse assolutamente necessario affrontare l’apertura di quella porta o se lo stimolo potesse attendere fino al mattino.
Steso nel letto cercavo di leggere ma ogni tanto lo sguardo tornava verso la porta e ogni volta avevo quella sensazione che qualcosa aspettasse là dietro e che io non dovessi assolutamente uscire dalla stanza. Una volta spenta la luce mi sentivo più tranquillo, come protetto dalla corazza dell’oscurità.
Nulla di tutto ciò succedeva durante il giorno, potevo attraversare quell’uscio mille volte, indaffarato nelle faccende quotidiane, senza mai tornare con il pensiero all’angoscia notturna di solo poche ore prima. 
Le serate scorrevano tutte uguali come sempre, fra i miei libri, o raccolto nei miei pensieri. Verso mezzanotte mi coglieva l’abituale sonnolenza e allora come di consueto mi preparavo per coricarmi ma, arrivato a chiudere quella porta, ogni notte me ne allontanavo in fretta, come se potesse spalancarsi con violenza improvvisa, per rivelare la minaccia in attesa solo pochi centimetri oltre la soglia.
Quella che per molto tempo mi rifiutati di considerare niente più una piccola bizzarrìa dovuta alla stanchezza, col passare delle settimane e dei mesi, finì con il dominare la delicata zona d’ombra fra la veglia e il sonno. Quei preziosi minuti di dormiveglia che il corpo stanco si concede prima di addormentarsi e che per tutti sono un piacere se non addirittura il premio per una giornata di fatica, per me finirono con l’essere un tormento, un’attesa spasmodica del sonno che mi allontanasse da quella minaccia, sempre lì oltre la porta, notte dopo notte.
Era una situazione insostenibile che si prolungava sempre più e finì col trasformare le mie notti in interminabili veglie, fino a quando la luce dell’alba riportava il mondo alla normalità.
Un giorno, forse confortato da un bicchiere di vino più forte del solito o forse esasperato dalle miserevoli condizioni in cui mi ero ridotto, privo di sonno da settimane, decisi di farla finita. Mi alzai dal letto e mi diressi verso la porta dicendomi ad alta voce che, insomma, era solo una stupida porta. Non esitai davanti ad essa per più di un’istante. La spalancai, e finalmente vidi cosa mi aveva atteso là dietro, per tutti quei mesi.

Si tratta di mettere in ordine le parole. Articolarle con calma, con chiarezza. Non farsi prendere dalla paura di non riuscire a dire qualcosa di importante e di urgente. Attrarre l’attenzione, lo sguardo, e poi sillabare forte e chiaro la natura del problema, lentamente, senza troppa emozione.
L’assistente sociale viene la mattina, e se ne va la sera, dopo il tramonto. Mi nutre, mi pulisce, ha cura del mio povero corpo immobile sul letto, di quello che ne è rimasto. E’ molto paziente con me, riesce a dirmi parole gentili, senza distogliere lo sguardo da me e dal mio aspetto ripugnante.
Vorrei ringraziarla, ma solo un gorgoglio inarticolato riesce ad attraversare la mia gola martoriata. Eppure è molto importante, molto importante, quello che ho da dirle. Dovrei spiegarle perché le mie ferite non si rimarginano e perchè ogni mattina lei ed il dottore ne trovano di nuove, di orribili. Posso ben immaginare cosa sussurrano fra di loro con quello sguardo perplesso e in fondo inorridito.  
Eppure basterebbe poco, basterebbe riuscire a dirle che, prima di andarsene, prima di lasciarmi ad un’altra notte di paura, deve ricordarsi di chiuderla bene, quella porta.


Carlo Zei

Nessun commento:

Posta un commento