Anni fa mi ero appassionato a un nuovo genere musicale. Musica elettronica con contaminazioni sud americane. Non so come fossi finito ad ascoltare certa roba, adesso non ce la farei, ero in una fase di immaturità musicale, presumo. Comunque, in quel periodo frequentavo una ragazza di Lisbona. Mi ero fatto una certa idea di lei, pensavo che non si depilasse. Credevo che le ragazze di Lisbona non si depilassero e quindi neanche lei lo facesse. Ero rimasto fermo agli anni ’70, con le ragazze di Lisbona. Dopotutto aveva i capelli ricci, folti e un’aria disordinata. Indossava gonne lunghe fino ai piedi, camicie indiane eccetera eccetera... Proprio così: freak. Insomma, il genere di donna che non si depila. Avevo dei pregiudizi ben ancorati, lo so. Studiava architettura e andava sempre in giro con uno di quei tubi porta-progetti. Diceva che nel tubo c’era la sua opera più importante, quella che l’avrebbe resa famosa in tutto il mondo. Innovativa, diceva.
Non dimostravo nessuna curiosità per il contenuto di quel tubo ma mi piaceva vederla camminare con quel coso nero a tracolla. La portavo ai concerti di musica elettronica, mi esaltavo, mi scalmanavo e mentre il mio diaframma restava sospeso per fare il pieno di dissonanze, lei restava immobile accanto a me. Non gradiva quel genere, diceva che sentiva freddo e che dopo non riusciva a dormire. Detestava quelle note piene di solitudine, come diceva lei. Non la presi sul serio, risi quando me lo disse.
Nella sua stanza, alla casa dello studente, ascoltavamo musica peruviana, i Calciachis, mi pare, e un disco di Paolo Conte. Puntualmente, su una canzone che parlava di un treno in corsa che sta per deragliare, bussavano alla porta. Era automatico. Paolo Conte, treno che deraglia, toc toc alla porta. Lei non era curiosa di sapere chi fosse a bussare, sembrava presa da qualcos’altro. Io sì, ero curioso e irritato da quella precisione maniacale. Quando si dice un rumore molesto. Anzi, appena lo sentivo, digrignavo i denti e prendevo il materasso a pugni. Così una volta mi appostai. Disse che ero ridicolo, che mi prestavo al gioco di qualcun altro, un provocatore e mi invitò a tornare a letto. Allora le chiesi di non mettere più quel disco.
‘Non essere sciocco’, mi rispose. Sembrava mia madre.
La volta successiva mi appostai ma solo mentalmente. Facevo finta di essere superiore, me ne stavo nel letto, preso da lei ma ero vigile, aspettavo il momento in cui Conte avrebbe detto la frase fatidica. E quando quel momento arrivò scattai in piedi, feci un passo lunghissimo verso la porta e la spalancai. Al di là della porta c’era una ragazza piena di capelli ricci che portava una gonna ampia e lunga. La presi per un polso e non si oppose. Mi voltai.
Lei era ancora nel letto mentre l’altra, identica o quasi, se ne stava in piedi poco oltre la soglia.
‘Chi sei?’, chiesi intontito.
La ragazza nel letto sbuffò. ‘Chi vuoi che sia, sono io no?’
Stavo diventando pazzo o forse lo ero già. In quel momento suonò un allarme e in un attimo il corridoio si riempì di gente che correva verso le scale e scendeva ai piani inferiori. Lei, la sosia, non c’era più. L’altra, la ragazza nel letto mi lanciò la mia maglietta, poi mi passò accanto senza guardarmi e fu inghiottita dal corridoio. Non la vidi più anzi, sarebbe più corretto dire che non le vidi più. Da quel giorno iniziò la mia fase jazz, accantonai per sempre la musica elettro-cubana e presi a interessarmi di architettura. E alla parola treno mi volto di scatto in cerca di una porta.
Elisa Minì
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