Non è che avevo voglia di star lì a far la valigia. Mi sono vestito in fretta, infilato il cappotto, e una volta in strada, visto il tempo che c’era, ho preso l’ombrello dei cani e sono andato verso via Po, camminando rasente al muro col bavero del cappotto tirato su.
Facendo il punto della situazione adesso ero anche senza casa. Senza lavoro lo ero già e poi ero in ritardo di tre mesi con i soldi che dovevo a Francesca. Ma questo era il meno. Il fatto è che oggi era mercoledì e avevo promesso a Mariangela di portarla al cinema. In tasca però non avevo neanche i soldi per l’autobus e per andare fin là ci sarei dovuto andare a piedi.
E poi?
Pensare a qualcuno che adesso mi prestasse dei soldi... Ne dovevo già a mezza Torino e l’altra metà mi sa che si era passata la voce.
Mentre 'sta cosa la rimuginavo tra me e me, ho avuto la sensazione di qualcuno che mi stesse chiamando. Ma non me ne fregava niente di vedere chi era. Poi ho avvertito dei passi svelti dietro di me e poi è arrivato lo strattone al braccio, che questo sì m'ha fatto voltare.
Davanti mi sono trovato questa tipa sui trenta, capelli neri, che mi fa: “Ehi Bambi, dov’è che vai con quella faccia loffia?”
E chi era questa, che mi chiamava con quel soprannome che nessuno usava più da anni?
“Di’ ma ti ricordi di me?”
“Anche se ci provo, so già che non ci riesco...”
“Che faccia tosta che c’hai! Se sempre lo stesso pezzo di merda...” mi ha guardato, poi si è guardata attorno, e con un’espressione fra il divertito e il complice mi ha quasi bisbigliato: “Di', ma te lo ricordi che sei stato tu a sverginarmi ventidue anni fa?”
“Ventidue anni fa, io?!”
“Sì, tu.”
“E dove?”
“Dentro ai cessi del Kilth, la sala dietro casa tua...”
“Ah, ho capito chi sei... La sorella di Chicca.”
“Sì, ma avrei anche un nome.”
“È quello che non riesco a ricordare.”
“Perché prima non me l’hai chiesto e dopo non te n’è più fregato niente. ”
“Ma no, dai!”
“Lascia perdere. Mi chiamo Augusta. Pensa te che nome del cazzo. Però mi fa piacere vederti, lo dico sul serio.” Eravamo io e lei lì, sotto i portici di via Po, in mezzo a gente che ci sfrusciava attorno, afferrati dal caso in una mattina che non aveva calendario.
“Sai, ho pensato spesso a te...”
“E quasi quasi io ci credo...”
Anche per smentirla sono andato a pescare dentro di me, dentro a quella specie di memoria a comando che ha sempre fatto infuriare Francesca, tutto ciò che poteva riguardare Augusta, la ragazzina di undici anni, quasi dodici. E le ho ricreato davanti a lei quel giorno, a partire dal gruppo inglese, "The Wonders" - così si facevano chiamare - che quel pomeriggio al Kilth stava facendo le prove. E noi là dentro, tutta la compagnia eravamo forse una decina. Seduti nella penombra su divanetti di finta pelle, a fumare e a sentire quelli che provavano...
Le ho così detto di chi c’era e di com’era silenziosa lei, seduta in disparte, ombra di Chicca, la sorella più grande. Carina ma dalle tette irrimediabilmente sgunfie: ci teneva sempre due o tre fazzoletti per riempire il suo reggiseno.
Ho ricordato ad Augusta perfino di com’era vestita, con i jeans aderenti e il maglioncino girocollo nero probabilmente mezzo sintetico: nel buio del gabinetto erano comparse le scintille quando gliel'ho sollevato per toccrle le sue monumentali tette,, che a undici anni erano già una quarta misura abbondant...
“Quella che chiami Chicca è mia cugina.”
“E perché ti faceva passare per sua sorella?”
“È un po’ lunga se te la racconto, magari stavi andando da qualche parte.”
“No, stavo solo andando un in giro.”
“Io ho finito adesso di lavorare, abito qua dietro, hai voglia di salire da me?”
La casa di Augusta era una mansarda divisa in due stanze. Dalla finestra della camera da letto si vedevano i tetti di Torino, quelli intorno alla Mole. Il letto era sfatto e noi ci siamo finiti sopra senza mezza parola. Subito dopo Augusta si è addormentata di sasso e mezzo minuto dopo già russava.
Sono stato un po’ lì immobile nel letto accanto a lei. Poi, visto che niente doveva più succedere, sono scivolato fuori dal suo letto in cerca del bagno: che più che una stanza era una cabina con la porta di plastica a soffietto. Per farmi la doccia ho usato il suo bagno schiuma al mandarino.
Mentre stavo per uscire, ho visto la borsetta di Augusta sul tavolo della cucina e le ho cercato nel portafogli. Dentro non c’era molto ma per me bastava. Le ho preso anche il pacchetto di sigarette. E una volta in strada, sono entrato in un bar a cercare di tamponare una fame di nervi e di rabbia con un cappuccino e un croissant. Il resto della mattina l’ho speso girovagando per i portici di via Po, fermandomi a fissare certi titoli di libri alle bancarelle.
La sensazione era quella di un tempo che non passa.
Le ore intorno a mezzogiorno sembrano fatte per marcare la differenza fra chi un lavoro ce l’ha, e fra un po’ magari stacca e va a mangiare, e uno come me, che non avendolo un lavoro di fatto non stacca mai. Quel po’ di sesso di stamattina mi sembrava remoto e distante, come raccontato da un altro. Andavo avanti sentendomi un automa che ubbidisce a stimoli e comandi gestiti da altri in remoto. Anche il problema di dove sarei andato a dormire la sera, neanche di quello riuscivo a rendermi importante. Forse avrei fatto come una settimana fa, quando mi sono infilato in un albergo, e senza essere visto dal portiere sono salito all’ultimo piano dove non trovando di meglio mi sono messo a dormire dentro a un armadio a muro, sul mucchio della biancheria sporca. La mattina mi ha svegliato dal tipo della lavanderia, che senza una fare una piega mi ha portato fuori col carrello, assieme al resto della roba, rinvoltato dentro a un lenzuolo, con il montacarichi giù fino in strada...
Per portare Mariangela al cinema i soldi adesso ce li avrei anche avuti, solo che una volta arrivato sotto il portone, Francesca ha cominciato a fare storie. Al citofono diceva che oggi non era il caso che Mariangela uscisse.
“E perché?”
“Ma ragiona! Sei senza una macchina e piove. Possibile non te ne reda conto?!”
“Si va be’, hai ragione... Tu hai sempre ragione..."
"E' vero, è così..."
"Tu però mettimela nell’ascensore e falla scendere cinque minuti, che veda se sta bene...”
“Certo che sta bene. Mariangela è tranquilla e sta giocando adesso. Non sono d’accordo che scenda e prenda freddo solo per far piacere a te.”
Ho provato a insistere e lei mi ha dato come al solito dell'egoista. Quindi, ormai sull'incazzato, mi ha ricordato dei soldi che le dovevo per il mantenimento di Mariangela.
“Te li do la prossima settimana.”
“L’hai detto anche l’altra settimana.”
“Sì, va be’, è vero, i soldi da darti adesso non ce l’ho, ma appena posso...”
E' tremendo come alla fine del rapporto fra noi due non ci sia rimasta che la merda. La merda e i soldi. E quel poco di forza d’animo che ero riuscito a trovare, d’improvviso mi s'è come svaporato. Mi sentivo adesso le ginocchia molli, come se qualcuno mi avesse fatto lo scherzo di tirarmi a sorpresa una botta da dietro.
Non era tanto la rabbia di essere andato fin lì per niente, quanto trovarmi lì davanti al portone - il portone di quella che un tempo era stata anche casa mia - e Mariangela dentro, a un appartamento del secondo piano, irraggiungibile quanto la galassia di Andromeda. Mi sembrava l’effetto di una discrasia tremenda, di qualcosa di me stesso forse fantastico, immaginato e andato in avanti quel tanto da lasciarsi indietro il resto, e che adesso mi vedevo crollare davanti per l’ennesima volta.
Staccandomi da lì, ho girato l’angolo e sono andato qualche isolato più in là, fin sotto casa di un amico. Lui è morto già da qualche anno, ma questo lo sapevo, ne ero consapevole. E' che sono voluto andare fin lì così, tanto per vedere se c’era sempre il nome sul citofono. Che poi in effetti c’era ancora. Mi sono trattenuto dal suonare il campanello per paura di vedermi andar fuori di testa del tutto se...
Riccardo Subri
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