Quel figlio non era stato facile farlo venire. E il perché non si poteva sapere. L’unico che avrebbe potuto spiegare quella riluttanza ad entrare nel mondo era lui, e dove fosse allora nessuno poteva dirlo. Poi, per l’insistenza di quell’amore del mattino e della sera, nel letto, sull’erba, nel fienile, alla fine era arrivato. Per Leda era stato come un lavoro supplementare tutto quel baciarsi e stendersi dove capitava, che le aveva tolto mille ore di sonno, con tutte le cose che c’erano da fare in campagna. Per Visar era stata una festa rara perché quel figlio, da stampare per amore e per forza nella pancia di Leda, era come il riparo alle disgrazie di guerra che ancora gli venivano davanti agli occhi come incubi notturni in pieno giorno. E una sorpresa, anche, quello spruzzo di vita risucchiato dal grembo di lei, nonostante tutto, nonostante la sua casa fosse bruciata, i suoi fratelli mitragliati e il resto della famiglia disperso. Come se nei cumuli di rovine che restano dopo un bombardamento, o all’aprirsi dell’alba all’indomani di un terremoto, restasse un orologio a pendolo, lucido e intatto, senza un grano di polvere, che continua a segnare le ore. Fino a che nelle macerie, tra le possibilità feconde del tempo, arrivasse ancora l’ora giusta per diventare vita. Il momento era arrivato dopo diciotto mesi, grazie ad un vigore rinnovato tutte le mattine con uova fresche, formaggio salato e peperoni piccanti. Leda se l’era fatta un’idea di quella cocciutaggine che aveva tenuto la sua creatura nel mondo inanimato delle pietre. In quel sonno ostinato che non gli dava forma. Era un sospetto preventivo, una voce dal niente che gli diceva che non valeva la pena. E adesso che lo sentiva muovere sotto l’ombelico, e accarezzava il morbido delle camiciole e delle ghette felpate, pronte per l’ospedale nella valigia ai piedi del letto, era come se sentisse la sua voce salire dalla pancia. Suo figlio chiedeva di garantirgli la vita, visto che non era stato lui a voler venire. Chiedeva la promessa di crescere. Senza guerra. Così che le parole liquide di consolazione, per la vita e per la morte, scappavano fuori a ricoprire anche le bare, e i corpi non ancora sepolti, vicini ai fiumi, nascosti dalla nebbia. Trofeo delle atrocità degli uomini bestia. Non entrerai nella terra a dormire coi tuoi. Te lo prometto. Avrai i giorni che ti spettano. Senza la colpa di essere vivo. Leda si allarga sui fianchi, il ventre disegna una cupola che assomiglia alla moschea di Pec, che spinge in punta e che fa indovinare il sesso prima di vederlo. Si allarga anche l’orto e si piantano tre alberi: un melo e due ciliegi. Cresce la casa, ricostruita con mattoni di terra scura, che pare lievitare come il pane. Alle ultime tegole del tetto si fa festa e si suona. Per tutta la notte si celebra la pace e la sua illusione e si balla, tenendosi per mano e formando una catena che trascina, dove l’inizio può diventare fine se gira in senso inverso, e l’inizio e la fine scomparire se chi sta all’estremità chiude in un cerchio. Leda infila tra i capelli biglietti da mille rakme dei parenti generosi e si fa un diadema. Con quella aureola pagana sembra più alta di un palmo e diventa una dea e uomini e donne sudati di musica le si fanno attorno a battere le mani. Leda balla, ma piano, per non svegliare suo figlio, e al mattino si addormenta su una sedia. Poi seguono giorni normali, il grembiule di Leda quasi non si chiude. Visar ritorna nei campi a rovesciare la terra e curare le vigne fragili come i suoi nervi. Leda si costruisce un forno con le pietre per cuocere pizza e burek. Se non fosse per le camionette delle forze di pace che stanno come cani da guardia parcheggiate davanti alle case ancora gli uomini si taglierebbero la gola per i rigurgiti d’odio. È passato un anno dalla guerra ma per spurgare gli occhi dagli orrori chissà cosa ci vuole. Quelle immagini si fanno più nitide e prendono a vivere all’improvviso, mentre cammini o preghi o mangi. La faccia familiare della guerra, quella dei tuoi stessi fratelli, di là della siepe, torna, notte e giorno, due volte al giorno, mattino e sera, nel letto, sull’erba, nel fienile. E ora che Leda non ha più posto per tenere Visar dentro di sé, il vuoto circolare della violenza compie un altro giro. Non sai dove comincia, non sai dove finisce, ma continua a passarti vicino con la canna del fucile o la sua ombra. Gli incubi si fanno ravvicinati e frequenti come le doglie di Leda, che non tardano ad arrivare. Visar è nel campo e non sente le grida di lei che perde l’acqua, e la pancia si fa dura come un osso mentre afferra il manico della valigia. Come in un film che si crede inventato, Visar rivede il soldato entrare nel fitto del bosco. Il soldato porta stivali grigi e grossi che si confondono con la terra argillosa del fiume. Sputa, scansa i rami con la canna del Kalashnikov, avanza col petto largo di una disperata incoscienza, si gira di scatto perché un fruscìo gli indica forse la strada più breve per saltare sulla preda. Porta un fazzoletto chiaro sulla fronte legato dietro la testa. Il soldato cerca un nemico da sgozzare. Ma se non sarà veloce sarà lui a cadere in una pozza di sangue senza più gola per gridare. Il soldato cerca la sua stessa morte. Leda getta una manciata di sale negli angoli della stanza, si fa il segno della croce, si stende sul letto e respira. Quel dolore che scivola lungo le gambe e che spaventa i sensi lo aveva sentito raccontare dalle donne. Un dolore che si dimentica. Le hanno detto. Leda chiede conferma alla foto di sua madre inchiodata sul muro. A lei, come a un dio femmina, ricorda il patto. Questa sofferenza che sia santa e che mi porti la vita di un figlio! A cosa servirebbe spingere fino a spaccare le vene degli occhi. Altrimenti. Ma la paura non l’aveva sentita raccontare. Il letto è una pozza vischiosa di sangue, sotto le pelvi sente la testa e la può toccare con la mano. Spingi Leda, respira e spingi! Il corpo parla un panico cieco, una voce animale che non riconosce, una voce diversa dalla sua, che si serve della gola per esplodere. Leda respira e spingi! Leda è stanca, vuole dormire, cadere nella notte più fonda, rimarginare la carne slabbrata e chiudere le gambe. E implora suo figlio di restare dentro, al riparo. Poi qualcuno arriva. È troppo tardi per correre all’ospedale. La testa è quasi fuori, strozzata da un giro di cordone. Suo figlio è tutto viola ma vivo. Respira e piange, quasi sua madre non lo crede. Vivo. «Vieni Visar, non stare sulla porta» dice Leda. «Sdraiati con questo figlio e passa la notte con noi». «Chissà quando è stato concepito. Non lo sapremo. Con tutti i salti che ci è toccato fare per metterlo al mondo». Poi lascia salire altre parole, che covano ancora nello spazio vergognoso del pudore. Visar prende il suo posto nel letto e si fa leggero. E adesso sogna incubi d’abbondanza dove in campagna l’erba per le bestie cresce in fretta e le ciliegie sugli alberi sono grosse come mele. Leda aspetta che dorma per dirgli «Visar, quando galleggiavo nella corrente fredda della morte mi è sembrato di vederla sorridere. E ho capito una cosa Visar. Sai perché le madri non fanno la guerra? Perché la conoscono la morte e non la vanno a cercare».
Elena Bellei
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