Estate piena.
Cielo vitreo.
Potrebbe essere pomeriggio.
Non sono solo.
Passeggio dentro l’afa in compagnia di una persona che conosco bene ma di cui non riesco a decifrare l’identità.
Non posso vedere in faccia l’amico misterioso.
Percorriamo il marciapiede che dall’alto costeggia il bordo dell’Arno, guardiamo il fluire lentissimo delle acque che hanno l’aspetto di un brodo argilloso.
In lontananza - prima di arrivare all’incrocio dove un ponte taglia il letto del fiume - scorgiamo un gruppo di persone al lavoro con movimenti molto cauti.
Investigatori costretti dalla situazione ad usare estrema cautela.
Avanziamo.
Il proseguimento del lungarno è sbarrato da lunghi nastri di plastica zebrati a strisce colorate. Delimitano la zona in cui è stato commesso un crimine.
Non è concesso ai passanti di oltrepassare queste demarcazioni perché gli agenti stanno effettuando operazioni di rilevamento sullo strato di asfalto a terra.
A noi è permesso andare avanti.
Entriamo nella zona proibita.
Al bordo del marciapiede ci sono alberi alti, fitti di foglie verdi, tutti con rigogliose chiome rotondeggianti.
Continuano a camminare. C’è una evidenza allucinatoria nella forza dei colori e delle forme.
Un paesaggio che buca gli occhi.
Siamo abbacinati. Ogni elemento visibile pare portato ad un livello estremo.
Oppressi dal silenzio in questo squarcio estivo.
La zona ora è deserta. Anche gli investigatori sono spariti.
Guardo l’albero più vicino a noi e mi accorgo di un oggetto appeso dentro la massa delle foglie. Dondola a tre o quattro metri sopra le nostre teste.
E’ una cosa speciale.
Un corpo umano adulto a testa in giù.
Non pare legato, è incastrato a forza tra i rami in modo da restare in sospensione tra le foglie.
Apro gli occhi.
Tarda mattinata.
Dal basso salgono rumori. Voci di bambini che giocano nel parco si mescolano ai versi degli uccelli saettanti sopra i tetti.
Filtrano lame di luce attraverso le stecche delle persiane sbarrate.
Recupero lucidità.
Sento fame. Ho fretta di fare subito una robusta colazione.
Scendo le scale con passi ancora imprecisi. Entro nella cucina dove Lavinia sta preparando il caffè.
La polvere versata a piccole cucchiaiate dentro il filtro della caffettiera cade come un sigillo apposto al futuro.
Gesti ripetuti ogni giorno, ma non si consumano.
Mi aggiro a piedi nudi sul parquet.
Apprezzo la consistenza delle assi di legno disposte in linee oblique.
Ho lavorato duro.
Mi sforzo di considerare la concretezza delle soluzioni.
A volte si ripresentano difficoltà che credevo superate per sempre.
Piani di fuga.
Da dietro Lavinia mi abbraccia.
Io le accarezzo i capelli.
I vapori di caffè profumano l’aria.
Lavinia toglie la caffettiera dal fornello.
Si apre una distanza.
Un filamento di elettricità sfavillante.
E’ un piccolo fulmine domestico.
Serpeggia sopra i legni del pavimento. Ci fa sentire più presenti dentro un tempo indesiderato.
Stefano Loria
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