mercoledì 10 agosto 2011
L’ultima volta che ho visto il mio sangue
Dove finisce il mio sangue? Quando non si trasforma in figlio. Se lo mangia una montagna, dice mia madre. Non va perduto. Se lo tiene nella pancia la montagna finchè partorisce qualcosa di vivo. Un albero o un sasso.
Se avessi saputo che era l’ultima volta che vedevo il mio sangue, lo avrei salutato.
La prima volta si annuncia o si rivela? Ti placa oppure ti spaventa, ti sorprende. L’ultima chi lo sa quando arriva. Devi voltarti indietro per vederla e lo capisci quando non fai più a tempo a prenderla.
Un’ ultima volta di qualsiasi volta. Tu lo sai quando arriva? L’ultima volta che un uomo o un figlio ti dice ti amo? Forse è accaduto. Ma lo aspetti.
Questa notte l’ho sognato che inondava la stanza e il giardino. E ho pensato: Non è mica poco. Ma poco per cosa? E ho pensato: se scendo dal letto mi sporco il pigiama.
Al mattino ho benedetto la nebbia che mi ha tenuto in casa. Ho accarezzato la mia pancia che per anni ha portato un dolore puntuale che credevo necessario.
“Le macchie di sangue vanno lavate con l’ acqua fredda altrimenti rimangono” dice ancora mia madre. Questo è importante saperlo. Tutto il resto non ha parole. E’ natura.
Adesso lo dice conversando coi grembiuli bianchi di cucina, schizzati di rosso quando pulisce il pesce.
Io credevo che sarei morta, a 10 anni, per tutto quel gocciolare oltre le verità che conosceva Nina. Tre giorni mi aveva detto lei, la mia amica più grande. Solo tre giorni poi finisce.
Un giorno pedalava svelta per dire alla maestra che (per tre giorni solo per tre giorni) a scuola non sarebbe andata. Mi aveva visto passando in campagna, mi aveva raggiunto e si era fermata.
Senza scendere dal sellino della bicicletta aveva infilato due dita sotto le mutande e me le aveva messe davanti. Guarda. Tocca.
Avevamo sentito l’odore di ruggine, urlato dal ridere e strappato l’erba secca per pulirci le mani. E avevamo continuato a ridere sedute sotto un albero a mangiare delle nespole, con le facce come quando si gioca a nascondersi.
Tutti i mesi le femmine si pulivano da dentro per uno sporco peccato, diceva la Nina. E tre giorni al mese non potevano andare in chiesa, finchè non erano pure. La parola peccato faceva paura e faceva restare in ginocchio per tutto il tempo della messa.
Sapevamo io e Nina senza saperlo che quel sangue era un segreto e che ridevamo per quel segreto, senza riuscire a smettere, perche ci faceva paura e per quella paura prendevamo in giro un peccato.
Nina, che bella amica che eri.
Tre giorni tre giorni, come la veglia di preghiera quando muore un vecchio, come i tocchi di campana quando viene al mondo un figlio maschio, e le genuflessioni davanti all’altare dei martiri.
Lei non sbagliava mai perché aveva visto tutto sul libro di sua madre che di mestiere tirava fuori i bambini dalle pance.
Quando successe a me ero certa che morivo perché dopo tanti giorni e notti, molto molto piu di tre, io sarei rimasta vuota. Il mio corpo sarebbe caduto per terra vuoto, coperto solo di pelle gialla come quello di una gallina.
Il mio sangue è senza fine come la lista delle mie colpe, penso. La colpa di ridere forte, di non pulire bene, di non stare in ginocchio, di essere nata femmina. Che altro ancora? Gli stessi peccati da sempre, da grande, da vecchia.
Un giorno mi trovarono in terra senza vita, crollata di fatica e solitudine. Per la paura della morte che sarebbe venuta prima che io potessi finire di pulire. E la gente avrebbe detto al mio funerale che non ero una brava figlia, che non servivo a niente.
Avevo lavato, lo giuro, pulito e lavato perché tutto fosse in ordine quando morivo.
Anche mia madre avrebbe detto: “era brava l’Adele era brava. Povera la mia Adelina”.
Questa notte ho sognato il mio sangue. E’ venuto a salutarmi tutto insieme. Se lo mangerà una montagna e sarà benedetto.
Elena Bellei
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