Anni fa vivevo all’Ugolino, vicino Firenze, in una casa nella quale mi capitava spesso di patire un po’ di solitudine. Una sera decisi di andare a puttane.
Certo, detto così suona un po’ squallido. E infatti, tali erano le mie motivazioni: volevo provare il brivido, fare l’esperienza, come si dice.
Erano anni quelli nei quali, se mi sentivo solo, mi veniva da ripensare a Roberta. Lei rappresentava il proverbiale ricordo di un grande amore, un ricordo per la verità arricchito da quasi un decennio di rimuginamenti un po' patetici e molto melò. In uno di questi momenti, dicevo, decisi di attuare il mio gesto di sfida verso il mondo delle convenzioni borghesi e di personale rivalsa esistenziale. Meglio poi non rievocare altre più marginali urgenze che mi spinsero infine a prendere la macchina a tarda notte e a dirigermi verso i viali di circonvallazione, il fatto sta che ci andai.
Cupo e pervicace mi misi dunque a cercare una puttana. Non avevo scelta, così mi dicevo, se volevo sentirmi vivo.
Giravo lungo i viali in folta compagnia, tuttavia l’imbarazzo del principiante mi tratteneva dal mettermi in fila con gli altri. Più che imbarazzo, paura. Avevo la certezza assoluta che la cosa più probabile del mondo fosse incontrare i miei genitori alle due del mattino mentre chiedevo una tariffa in testa ad una coda di puttanieri. Così continuavo a girare, senza risolvermi ad accostare.
Finalmente mi parve che di fronte ad una certa minigonna posta in cima a degli altissimi stivaloni rossi non sostasse alcuna automobile. Senza perdere tempo ad osservare cosa si trovasse al di sopra della cintura inchiodai e attesi che gli stivali (dal posto di guida potevo vedere solo quelli) si avvicinassero al finestrino. Il mio errore mi fu subito manifesto: un volitivo mento mal rasato si affacciò e con accento partenopeo ben lontano da quello del grande Eduardo tuonò:
“Settantacinquemila lire, bello giovane, ma facimme presto che tengo fretta!”
Mormorai delle scuse, con spiegazioni che speravo convincenti, sul mio cercare una donna biologicamente tradizionale, detto senza offesa, ‘che io non ero pratico.
“Ma guarda ‘sto strunzo, ma nun me fa’ perde tempo, vattenne, va'!”
In preda al panico e completamente concentrato nell'imperativo di fuggire sì, ma senza sgommare, mi allontanai, con le orecchie in fiamme (le mie orecchie diventano paonazze ogniqualvolta mi azzardo a simulare un atteggamento di elegante distacco).
A quel punto era una questione d’onore. Perché, mi domandavo, tutti quegli altri cinghiali si muovevano con tanta disinvoltura in quel mondo e io mi facevo umiliare da uno con degli stivali rossi alti fino alle natiche irsute?
Mi misi a cercare con maggiore determinazione, ma sui viali c’era davvero troppa folla, così decisi di tentare la sorte vicino alla stazione. Ricordavo di avere notato in passato qualche prostituta su via Nazionale, ma questa volta volevo essere sicuro che non si trattasse di un travestito e decisi pragmaticamente di escludere le persone di taglia potenzialmente maschile, eccessivamente appariscenti e dal trucco così pesante da far sospettare una barba celata. "In fondo", mi convincevo con autoindulgenza, "a me piacciono minute".
Proprio alla fine di via Nazionale mi parve di avere individuato la mia preda: una ragazza, vestita in modo quasi normale, di piccola statura e dai corti capelli biondicci, stava seduta sul ciglio del marciapiede, con la classica borsetta oscillante e un fagottino in mano. Quando rallentai si alzò, fugando ogni dubbio sulla sua professione, e si avvicinò al finestrino. Mi sembrava passabile, nella penombra persino carina, con quei capelli corti.
“Cinquantamila, ottanta se non é a casa mia.”
“Va bene, sali.”
Salì in macchina e io, in preda al batticuore, non la guardai neppure, mi sembrava di avere superato una grande prova, mi sentivo avventuroso e potente. Prima ancora di voltarmi cominciai a parlare, domandai se non le dispiaceva di venire a casa mia, perché in ogni altro luogo mi sarei sentito a disagio, e mentre dicevo questo vidi cosa conteneva il fagottino che teneva in grembo, era un cartoccio con un pezzetto mangiucchiato di schiacciata che maleodorava di olio fritto. Mi voltai meglio a guardarla. Scheletrica, gli occhi cerchiati e infossati, i vestiti sporchi e squallidi nel loro patetico tentativo di essere provocanti, in stridente contrasto rispetto rispetto al variopinto latex alla “carnevale di Rio” del napoletano barbuto di prima. Mentre mi spiegava che dove si andava per fare “quel che si deve fare” non era importante per lei purché la portassi indietro alla svelta, che sennò Vito si incazzava e la menava, cercava di spezzettare la schiacciata, ma le mani le tremavano forte e riempiva di briciole tutto il sedile senza riuscire a portarsi alla bocca quasi niente. Come mi sentivo? Parafrasando Machiavelli: "Io non credo, per quel cielo che io darò, che mi torni la foia" ovvero , l’idea del sesso a questo punto mi sembrava attraente quanto una coloscopia effettuata da un infermiere sottopagato e ubriaco. Lei sembrava completamente concentrata sulla sua schiacciata, ma il tremito alle mani le rendeva penosamente difficile ogni boccone.
Dopo meno di un chilometro mi sentivo male fisicamente, quell’odore d’olio mi avrebbe fatto vomitare prima di arrivare a Grassina.
“Senti", mi risolsi a dire "io volevo solo un po’ di compagnia, non é che dobbiamo fare qualcosa per forza, se tu non ti offendi.”
Rispose a bassa voce, come se le costasse molto sforzo, con un accento toscano roco e sgradevole, ma disse che no, non si offendeva, ma che dovevo portarla indietro che sennò Vito le spaccava la faccia. Mi pareva totalmente stanca e passiva, in grado di concentrarsi unicamente sul tempo necessario “a fare quel che si doveva fare” (come continuava a dire) e sulla sua schiacciata.
“Facciamo così, ora ti riposi un attimo e ti mangi la tua schiacciata, poi ti riporto indietro, e le cinquantamila lire te le dò lo stesso, che ne pensi?”
Mi guardò con una espressione stupefatta, e dopo avere cercato inutilmente di rimettere ordinatamente l’avanzo nel cartoccio, mi chiese se davvero avrei fatto questo per lei. Disse che ero la seconda persona più buona con lei della sua vita, e mi cominciò a raccontare della prima e di come era sfigata lei, e come tutto le andava male, e di come ero buono io, che si vedeva che ero proprio buono. Nel frattempo le era aumentato il tremito alle mani, e sembrava sul punto di piangere, ma era solo una impressione perché aveva più che altro voglia di spiegarmi che gli uomini sono stronzi e che io ero molto buono, quasi come quell’altro, che anche lui era stato buono.
Nel frattempo eravamo ritornati su via Nazionale, io le diedi la banconota, lei scese, ma mi sembrava di dovere dire qualcosa che desse, dal mio punto di vista, una parvenza di normalità al nostro incontro: mi presentai col tono che si usa alle feste quando si conosce qualcuno, e le domandai come si chiamava.
“Roberta” disse, cercando inutilmente di mettere la banconota nella borsetta, al punto che dovetti aiutarla.
Me ne tornai a casa, perfettamente umiliato e convinto di essere stato punito per qualcosa.
Quanto a Roberta, quella che amavo in modo così disennato, la rividi solo una volta, di sfuggita anni dopo, ero in un cinema e riuscii solo a biascicarle un saluto e qualche frase quasi insensata, mentre lei mascherava a malapena l’imbarazzo. Se ne andò, con suo marito, prima dell’inizio del secondo tempo. L’altra Roberta, mi disse un amico non completamente degno di fede a cui avevo raccontato della mia sortita, pare che fosse una tossicomane e che sia morta tempo dopo, forse per una overdose.
Carlo Zei
Testo asciutto, ma molto espressivo
RispondiEliminal'esperienza era la schiacciata?
RispondiElimina