Mi siedo alla scrivania. Mi alzo. Mi risiedo, mi sposto sul divano e poi in cucina e poi in camera e poi… Sono entrata in casa da pochi minuti. Ho appreso la notizia del tuo decesso ad un pranzo di lavoro con amici, da una telefonata improvvisa. Il mio corpo inizia a reagire solo adesso: piango, prima poche lacrime, poi singhiozzi e non smetto, con la testa piena di musica e di parole, tante, spesso scritte in una fitta corrispondenza, percependo ancora la commozione degli abbracci composti e carichi d’affettuosa partecipazione nel corso delle (poche, mi rimprovero) visite.
1989, Venezia, metà novembre: entro a Ca’ Bonvicini. Sono in ritardo, a casa mi ero studiata il percorso sulla piantina, ma incredula del fatto che per entrare in una sede universitaria bisognasse suonare il campanello, c’ho girato attorno per una buona mezz’ora tra i ponti, le calli umide e la nebbia del tardo pomeriggio. Dentro all’androne di Lingue Orientali chiedo informazioni ad uno studente apparso dal nulla e molto incuriosito dalla mia agitazione. Il ragazzo (carino, penso!) esce con me indicandomi sorridendo la porta di Storia e Critica delle Arti, il Dipartimento adiacente, affermando che “Sì, è proprio quello lì!”.
Matricola 740962, capelli cortissimi e occhi in continuo movimento per memorizzare ogni particolare. Ho avuto il libretto d’iscrizione pochi giorni fa, dopo una coda durata un’intera mattinata e non ho la pallida idea di cosa significhi. So solo che l’Università per me è cosa seria, che questo corso l’ho scelto io, che mi sento grande.
Suono, mi aprono, nessuno chiede chi è, né so dove mi devo dirigere. Mi trovo in un androne piccolo e buio, molto diverso da quello precedente, pieno di carte e manifesti di concerti un po’ appesi alle pareti e un po’ gettati alla rinfusa su un piccolo tavolino di legno. A sinistra ci sono delle scale strette che dopo pochi gradini girano ad angolo retto verso destra; da lì provengono una luce chiara e un leggero brusio. Una voce dice con tono sostenuto di “Ricordarsi di chiudere il portone!”. Mi volto, il portone s’è chiuso da solo, c’è la molla! Bah! Penso di essere capitata in un luogo molto stravagante e la cosa mi riempie di eccitazione. Salgo, slaccio nervosamente i bottoni del cappotto, mi tolgo la sciarpa, che lunghissima mi avvolge il viso, e il cappello di panno rosso, che indosso in modo sfrontato dopo aver recentemente visto di nascosto Ultimo tango a Parigi.
Salgo in direzione della luce spettinando i capelli, tra altri manifesti colorati e penzolanti. Mi fermo di fronte ad una parete bianca, che segna il confine di un corridoio stretto quanto le scale. A destra c’è una porta chiusa dalla quale si sente una voce stentata e a sinistra altre tre porte aperte, poi di nuovo pochi gradini, che, scoprirò in un secondo momento, permettono di salire ad una specie di zona franca, per poi scendere nuovamente all’unico bagno a ridosso di un magazzino.
Un uomo buffo con gli occhiali e una leggera calvizie (il prof. Borin-Storia del Cinema) esce da una delle porte di sinistra e mi chiede di cosa ho bisogno. Intimorita, con un filo di voce, balbetto: “Il corso di Storia della Musica”. Mi indica la porta a destra, aggiungendo burbero che “E’appena iniziato”. Busso senza farmi sentire ed entro imbarazzata. Sette, forse otto studenti sono seduti disordinatamente su delle sedie di plastica bianca e acciaio; sussurrano tra loro a bassa voce, davanti ad un tavolo largo dello stesso colore. Dietro al tavolo un ometto con i riccioli disordinati, scuro di capelli e d’abito, con delle appariscenti espadrillas verde acido, sta cercando di far funzionare boffonchiando un tecnologico (allora lo era) lettore cd, senza ottenere grossi risultati.
Indecisa tra lo stare in piedi o il sedermi per terra continuo a guardarmi attorno: due pareti ricoperte da altissime librerie stipate di libri e di enciclopedie di Musica, Cinema e Teatro; due finestre, una che si affaccia in calle e l’altra sul canale. Tranquillizzando il batticuore, metto a fuoco alcuni volti del Conservatorio e, scusandomi per il ritardo, mi vado a sedere affianco a due ex compagni di Liceo, Cinzia e Cristiano, che mi indicano con ampi gesti un posto vuoto accanto a loro. “ Ma chi è?!” chiedo appoggiando la borsa sul pavimento a onde di marmo veneziano, “Il prof. Morelli” mi dicono a bassa voce. Sorrido finalmente, allegramente sorpresa e affascinata: “Wou…un uomo non assuefatto dagli stereotipi”, esclamo tra me! C’era da ridere quando una matricola, vedendolo per la prima volta, gli rivolgeva la parola chiedendo del “prof. Giovanni Morelli” considerandolo il bidello del Dipartimento, e lui compiaciuto, in una modestia mai smessa, rispondeva “Sono io!”, lasciando tutti a bocca aperta (Morelli, Borin e Alberti-Storia del Teatro completavano l’allora corpo docente di riferimento, in una complice formula d’autogestione).
Improvvisamente il lettore cd si avvia a tutto volume. Noi facciamo un salto sulla sedia; il professore, girando due occhi luminosamente neri verso i nostri e appoggiando sul tavolo la partitura, esclama divertito: “Non so’ come ci sono riuscito, ma ascoltiamo!”. Tutta l’attenzione è rivolta con la massima concentrazione alla musica riprodotta, in una mezz’ora di totale…silenzio. Ifigenia in Tauride di Gluck. A seguire, un piccolo dibattito: qualche indicazione sua, molte domande poste da studenti già esperti; parole difficilissime come formule incantatorie: mitopoiesi, tracotanza…; un andare e venire continuo di dati tra musica, letteratura, religione, filosofia, psicanalisi, arte figurativa e molto altro ancora; ce la farò? Alla fine dell’ora un cioccolatino a testa: “A domani! Le lezioni si svolgeranno tutte nel fine settimana e in orari serali per dare l’opportunità a chi lavora di poter frequentare”. “Ce la farò!” mi dico, galvanizzata di fiducia: “Soccombere sotto ad una cosa è superarla” ho annotato del tuo dire sui fogli di quel anno, mentre, tra il sublime irreale e il sublime pratico, tra Schiller e Zoroastro, ci parlavi di morte in forma di vita. Oggi considero che, come solo un Maestro travestito da pifferaio magico sa fare, ci hai pazientemente e appassionatamente condotti su una strada di difficile, ma pienamente vissuta, libertà.
Roberta De Piccoli
Esercito privilegiato...
RispondiEliminagrazie per questo ricordo, mi ha fatto rivivere per un attimo l'atmosfera magica di quel dipartimento. Ti capisco perfettamente, ho reagito alla notizia allo stesso modo. Un abbraccio da una "morellina".
RispondiEliminasai guardare con cura rispettosa e le tue emozioni arrivano senza grovigli - bello leggerti.
RispondiEliminala scrittura è golosa di particolari, ma spesso si abbruttisce nelle indigestioni.
vorrei questo fosse il primo di altri capitoli bonvicinei.