domenica 26 dicembre 2010

Un'ombra di rosso tra gli equinozi

In questa tiepida serata, che da calendario preannuncia un nuovo autunno, mi siedo a giocherellare con l’ultimo grappolo d’uva, rimasto sul tavolo devastato dai soliti amici a cena. 
Nonostante l’ora tarda alzo il volume: BrunelloZaniFalzone, Adagio K280 da Bye bye Mozart. 
Sorrido a me stessa, divertendomi a schiacciare gli acini tra le dita, come da bambini si faceva per dispetto l’uno in faccia all’altro ridendo e strillando tra i rimproveri dei grandi impegnati nella vendemmia. 
E mentre mi lecco le dita impasticciate dal succo, scivolo inavvertitamente tra i ricordi …
… dieci anni! Pioggia a dirotto! 
A conclusione del pranzo condiviso con mia sorella e le cuginette, si attendeva la preparazione di una crema pasticcera profumata al limone. 
Io, unica privilegiata, stringevo tra le mani il mio primo bicchiere di vino. 
Vino rosso! Rosso come il mio volto acceso da uno spirito traboccante d’immaginazione. 
Seppur ancora bambina, percepii quel momento come un netto segno di demarcazione tra passato e futuro; colmando il gesto di una indefinita ritualità. Tanto da confondere l’estrema profanità di quel presente nel sacro. 
Si era in prossimità dell’estate, ma la pioggia scrosciante non lo presagiva, anzi, offriva all’aria un’umidità così densa da rendere tutto appiccicoso, più appiccicoso dell’acchiappamosche che scendeva dal lampadario sopra alla tavola di cucina. 
Non ero a casa, ero da nonna, in campagna. 
Lì, la cucina era stretta, scarsamente illuminata; un corridoio, quasi. 
Essa, come centro nevralgico di vita quotidiana, possedeva quattro porte (una per ogni lato); trovandosi, così, ad essere frapposta tra il soggiorno e la cantina nei lati lunghi e fra l’ingresso principale e il portico in quelli corti. Essa (sempre in disordine, sempre con la tavola apparecchiata) racchiudeva in sé un crogiolo di odori e colori talmente intensi da risultare inebriante. 
In quella stanza, appena svegli o assonnati, comunque pronti a scendere o a salire le scale che dall’ingresso portavano alle camere, ci si sentiva quasi abbracciati; cullati nel limbo di un indefinito passaggio; protetti dall’eccessivo calore del camino della stanza posta a mezzogiorno e dal buio freddo dei muri che a nord conservavano tini tinozze damigiane. 
La doppia porta (una sottile a vetri - una massiccia in legno verde) e una piccola finestra affacciate sul portico erano l’unica fonte di luce diretta; una luce che al tramonto spesso si infuocava e che aveva il potere di allungare le ombre delle piante del giardino, portandole in comunicazione con i commensali. 
Nonna stava preparando la crema e zia Cea o Schito (nome variabile per l’amorevole umore dei fratelli) propose un brindisi festoso al tavolo circondato da sole femmine -le bambine sulla panca, le donne sulle sedie al lato opposto, io a capotavola-: «Ai diec’anni!» …proprio nel momento in cui le lacrime e la malinconia stavano per avere un definitivo sopravvento su di me. 
La giornata non era tra le più felici. 
I miei genitori a casa discutevano del loro futuro assieme; del mio e di quello di mia sorella. 
Le viti del Cabernet materno (stese a nord-est del paese in cui abitavamo) e del Merlot paterno (i cui filari erano più a sud-est, verso il mare) evidentemente nell’annata precedente avevano prodotto un’uva particolarmente zuccherina, che, concedendo un sapore più deciso ai due vini servirti allo stesso desco, aveva sortito anche degli effetti inattesi e contrastanti nei loro animi. 
La pioggia e l’uso obbligato della luce elettrica non aiutavano, negandomi la speranza di uno svago all’aria aperta, diffondendo nel mio animo una sensazione di solitudine e di tristezza infinita. 
Onorare il ‘passaggio’, che dalla decina dell’infanzia mi conduceva alla decina del compimento del diciottesimo anno, servì da anestetico; emozionandomi immensamente. 
Avvicinai il bicchiere alle labbra come se sorseggiare quel vino significasse approssimarsi a gustare la vita.
Il primo sorso fu tra l’avidità e la titubanza, ma, ad un palato unicamente memore dell’amabilità del mosto, risultò amarissimo; tanto da allontanare qualsiasi idea di piacere sovversivo ad esso associato!
La bevanda venne allora prontamente modificata da nonna in un intruglio composto da un’alta percentuale d’acqua, da qualche traccia di vino invadente e da molto, moltissimo zucchero…
Una bibita magicamente dissetante, invidiatami dalle altre piccole convitate.
E così la tristezza passò, prima ancora di arrivare a gustare la crema. 
Nel pomeriggio smise anche di piovere. 
Sotto un arcobaleno illuminato dal luccichio delle gocce che scivolavano dagli alberi da frutto, potei finalmente girovagare in cortile, canterellando un’indistinta libertà a cavallo della mia biciclettina arancione ormai fuori misura. 
Mia sorella trascorse con me gran parte dell’estate in campagna, i miei genitori decisero di continuare ad alternare Cabernet e Merlot alla loro tavola e poco prima della riapertura delle scuole io iniziai precocemente e inaspettatamente a prendere confidenza anche con l’odore acre e il colore rosso della pubertà, oltre che con una più seria e costante educazione musicale (… regole da ‘signorina’).
Ora, con le dita che odorano d’uva, sfioro la tovaglia bianca come i tasti del piano che sfuma dal cd ed alzo un calice di vino scuro a quella che ero, a quella che sono…un corposo Bordeaux.


Roberta De Piccoli
pubblicato in:  “Il vino e la sua magia” (Roma,  EstroosreV  2010).

2 commenti:

  1. Riconosco il tuo stile, denso e dolce, accattivante e misterioso. La prima volto l'ho notato e apprezzato alla manifestazione letteraria che i Semi Neri tennero a Fanano il 30 Giugno del 2007 alle ore 18 (ho ancora la locandina), quando leggesti una tua bellissima favola (ricordi?).
    A presto.
    Marco

    RispondiElimina