Qualche giorno cercava il vento in piedi a braccia strette in mezzo al campo, a girare per farsi asciugare il sudore della nuca, come una statua su un piedistallo rotante.
Anche la neve le piaceva, ma doveva aspettare l’inverno per quei baci lievi che arrivavano sulla faccia senza chiedere niente.
Lei si godeva d’acqua, di vapore da stiro, di butti d’edera, di tulle, di pane. Di tutto quello che riempie la vita.
Era da un po’che Iole cercava l’amore nelle cose. Da quando era vedova e non aveva carezze.
Olmo era stato un marito buono. Aveva un’officina e tornava sporco. Lei gli lavava la tuta bianca con la lisciva e la candeggina. Adesso per stare in compagnia metteva il bianco a 90 gradi e sentiva il suo odore. Ma era solo un preambolo come quando uno ti bacia sulla guancia. Il piacere vero arrivava dopo, con i panni strizzati e stesi, con il vento e il sole che asciugano piano, e si prendono tutto il tempo che ci vuole.
Iole si accarezzava col suo stesso corpo, il seno e la pancia che si toccano come un buongiorno, le ascelle che sgorgano cristalli di sudore e le cosce che strofinano insieme come buone amiche che si danno coraggio.
Ma quando nel mezzo della notte si svegliava per troppa solitudine cercava una consolazione da mangiare.
Da qualche tempo era il pane a darle il piacere più grande, coricato sul vassoio di legno, appena sfornato e avvolto con la carta bianca rivoltata nell’orlo, per lasciare spuntare il primo boccone per un’ impazienza di stomaco.
Faceva pensare a un bambino appena nato, con la testa fuori dal lenzuolo. Una creatura innocente, partorita dal forno elettrico della cucina.
“Mastica piano e non esagerare” si imponeva la Iole , ma era lo stomaco che glielo strappava da dentro. Come una disobbedienza.
Qualcuno l’aveva anche vista ballare davanti a casa abbracciata alle pagnotte, con gli occhi chiusi.
All’ospedale il medico le aveva disinfettato la ferita, un buco a destra dell’ombelico, “grosso come una arancia” aveva detto.
Avevano iniettato valium per farla smettere di piangere e un’ affettuosa sonnolenza l’aveva consolata come una madre.
Questo era successo quando la Iole si era stancata di curarsi da sola e aveva cercato un uomo.
Aveva inventato due preghiere per chiedere scusa alla sua coscienza e se l’era portato a letto, per vedere se veniva qualcosa di buono da lì. Dai capelli lavati, dalle braccia venose, da quella pasta nuova e diversa che bastava toccarla per avere cibo dritto nell’anima.
L’uomo nuovo era bruno, aveva spalle robuste e fame arretrata. Per l’esperienza di felicità solitaria Iole sapeva come fare a trovare le cose che lo avrebbero fatto contento. Lui si lasciava curare come un orto.
Lenzuola appena stirate, il profumo di margarina sul pane, una coperta sulle spalle alla prima brezza della sera, parole fini, offerte come i raggi di luce alle porte del regno di dio.
Mi ami chiedeva la Iole. Ma la domanda giusta era: hai fame?
L’ambulanza l’aveva chiamata lui prima di andarsene. Poi l’aveva lasciata da sola a tamponarsi quei crateri. Gli uomini non cercano il sesso aveva pensato lei nel dormiveglia spazioso dell’anestesia
Non vogliono cadere in disgrazia dentro al tuo godimento migliore. Non sanno dove vai quando rovesci gli occhi, hanno paura di perdersi dentro quel sogno nero e spaventoso.
Ma se tu sei pesca, se tu sei pane, non possono che essere grati. E amarti senza paura.
Nel punto preciso dove i denti hanno lacerato la pelle si vede il segno netto dell’arcata. Un morso, un buco grosso come un’arancia, un altro di fianco a un capezzolo e un terzo nella coscia, a sinistra.
C’è qualcosa nel corpo che lo fa assomigliare al cibo. C’è un segreto mescolato alla carne, che nessuno ti spiega, come lievito che cresce con te, che non è visibile, che non si pesa come la farina. Eppure vieni fuori da un buco di carne e dentro a quel buco ritorni tutte le volte che vuoi, tutte le volte che puoi. Il corpo è un peccato di gola.
Prendimi, aveva detto la Iole. La mia pancia è pane caldo. Fino a che l’uomo se n’era andato, portandosi via grossi pezzi di lei.
Elena Bellei
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