Dal ricco e stimolante complesso di temi contenuto nell’ultimo libro di Adelino Zanini: “L’ordine del discorso economico. Linguaggio delle ricchezze e pratiche di governo in Michel Foucault” (Ombre corte, Verona, 2010), estraggo quello della differenza tra il liberalismo classico e il neoliberalismo, che implica tra le altre cose una diversa idea di governo. Nei corsi degli ultimi anni, Foucault tocca due modelli di neoliberalismo, quello americano (l’anarco-capitalismo) e – soprattutto – quello tedesco (il cosiddetto ordo-liberalismo). Si sa che l’economia mette in discussione l’idea di sovranità ed è proprio il paradigma economico liberale (che dà corpo allo stesso discorso politico, sempre di marca liberale) a fondare una governamentalità sicuramente bio-politica e insieme capace di critica nei confronti degli stessi imperativi appunto bio-politici. Rispetto al liberalismo, Foucault vede bene che in esso il rapporto tra mercato e verità viene colto in termini non morali, bensì governamentali, soprattutto nel momento in cui il mercato viene raffigurato non come luogo di giuridificazione, bensì come luogo di verifica degli stessi effetti delle pratiche governamentali. D’altra parte è opportuno ricordare come il motto del liberalismo non sia quello che incita ad essere libero (“sii libero…”), ma quello che recita così: “ti procurerò di che essere libero…”.
Quando però Foucault si rivolge al neoliberalismo (che ha appestato, sostenuta da destra e da “sinistra”, gli ultimi decenni, fino alla sua resa poco onorevole di fronte alla recente e drammatica crisi finanziaria), ecco che allora riesce a sottolineare un aspetto non scontato della praxis governamentale (dopo la crisi del “sovranitismo” tradizionale): essa è infatti pervasiva, operante, il suo scopo è quello di prendersi cura del mercato, di coltivarlo. Zanini riassume così, in maniera efficace, la lettura foucaultiana dello specifico neoliberale, in relazione con le trasformazioni della politica: non si deve governare a causa del mercato, ma per il mercato (laddove il mercato è l’attore pienamente positivo della scena del contemporaneo). Su questo sfondo si delinea meglio la figura odierna dell’homo economicus, che non è più l’uomo dello scambio, bensì l’uomo (di) impresa, l’imprenditore di sé. Tra parentesi: si noti allora come sia banale – e in fondo scorretto – identificare semplicemente l’homo economicus con il soggetto consumatore.
Da tutto questo deriva una questione importante: è l’impresa a diventare, nell’ottica neoliberale, la potenza della società, dando corpo ad una molteplicità di individui e di diseguaglianze che non possono che aumentare le frizioni, gli attriti, vale a dire i conflitti. Rispetto alla relazione dell’economico, così raffigurato, con il giuridico si disegna quindi un quadro che vede la legge diventare sempre più formale nello stesso tempo in cui l’intervento giudiziario si fa concretissimo, assai frequente. E’ paradossale: in una società che si qualifica come neo-liberale quella incompatibilità, nel presente ancor più esasperata, tra le molteplicità dei soggetti di interesse (dei soggetti economici) e l’unità totalizzante del “sovrano” giuridico porta ad un ritorno del “sovranitismo”, certo in maniera originale, anche perché costretto a confrontarsi con un soggetto – lo ripeto: quello di interesse – che si è spogliato (parzialmente…) proprio della sua veste di partenza, nel moderno, vale a dire quella giuridica.
Ubaldo Fadini
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