mercoledì 15 dicembre 2010

By Rocket to the Moon

L’aula era grande e luminosa e sapeva di polvere di gesso. Il sole entrando dai vetri delle finestre riempiva il pavimento di linoleum verde di chiazze senza una forma precisa.
Quando entrò, la classe si alzò in piedi con un rumore stridente di sedie trascinate.
I visi attenti dei bambini lo seguirono fino alla cattedra. Lì lui si fermò. Non salì sulla piattaforma, solo guardò i bambini, si sistemò meglio sui piedi, alzò una mano per salutarli e nello stesso tempo farli sedere.
Adesso avrebbe dovuto parlare, raccontare loro dello spazio. Perché lui c’era stato, nello spazio. Almeno così dicevano le fotografie, i filmati che lo ritraevano fluttuante in una dimensione senza punti di riferimento. Galleggiante in volumi dove l’alto e il basso, la destra e la sinistra non avevano senso, semplicemente non esistevano. 
Era successo davvero?
A volte lo dubitava. C’erano lampi, anzi, nei quali pensava che si fosse trattato solo di un sogno. In quei momenti era quasi certo che l’uomo che salutava dalle foto, nascosto dietro quel casco a specchio non fosse lui. In fondo, chi poteva assicurarglielo. Poi però si riscuoteva e i suoi dubbi si rimpicciolivano fino a scomparire. Per tornare di nuovo ad assalirlo più tardi. Il fatto è che quel navigare nel vuoto gli era entrato anche nella testa, aveva scavato un tunnel nei suoi pensieri, creando dentro di lui un’instabilità oscillante che non era più soltanto fisica.
-Come sei arrivato sulla Luna?
La domanda arrivò prima ancora che il brusio di sottofondo delle sedie che tornavano al loro posto, si fosse spento. Prima ancora che la maestra potesse presentarlo o dire qualunque cosa di lui. 
Il bambino era rimasto in piedi, al primo banco. Rigido. E lo fissava negli occhi con un’insistenza pervicacemente infantile. L’insegnante, un po’ più indietro, a fianco della la cattedra, esibì, imbarazzata, un sorriso esagerato.
Dove va un astronauta? Sulla Luna. Per un bambino è sempre sulla Luna.
Invece lui era stato sulla stazione orbitante. Sarebbe stato meglio fare chiarezza. Subito.
-Allora…- esordì -la navicella shuttle mi ha portato...
La vocina del bambino lo interruppe, subito, impaziente, incurante:
-Sì, ma come hai fatto ad arrivare fino alla navicella?
Non lo aveva neppure lasciato finire. Moccioso impertinente. Riprese il corso dei suoi pensieri e tentò un’altra risposta:
-Per salire sulla navicella c'è un ascensore che da terra...
Di nuovo un’interruzione:
-Sì, ma all'ascensore? Come sei arrivato all’ascensore?
Cos'è, uno scherzo? Pensò. Il bambino non sembrava particolarmente brillante, il suo sguardo anzi, gli era parso persino vacuo, almeno finché glielo aveva visto vagare intorno, posarsi sui banchi, sulla maestra, sui compagni, ma ecco che, come quegli occhi si posavano nei suoi, acquistava l’acutezza di una punta di trapano. Gli occhi lo penetravano e lui stentava a trovare le parole.
La maestra continuava a sorridere al limite della paralisi.
-Vuoi dire: da quando mi sono alzato? Il giorno del lancio?
Il bambino scosse la testa, imbronciato:
-Voglio sapere da dove sei partito.
-La base spaziale si trova negli Stati Uniti d'America, in Florida.
-Ed è da lì che sei partito?
-Il razzo è stato montato nella base spaziale.
-Ma tu eri lì?
-Io sono arrivato dopo.
-E da dove venivi?
Si fermò.
Da dove veniva?
Da nove anni di preparazione, gli venne da ringhiare. Nove anni. Cinque anni a Colonia ad addestrarsi in attesa di essere assegnato ad una missione, poi quattro anni a Houston.
Forse era da lì che veniva? Da Houston? Dal Johnson Space Center? Ma lì, tutto sommato, era già stato assegnato. Era un punto di arrivo, il periodo in cui prepararsi, studiare, mantenere la forma fisica migliore, dove però l'obiettivo era chiaro, era la missione, e la missione aveva una data.
No, era da Colonia che veniva. Per cinque anni a mordere il freno, ad allenarsi, lavorare, senza sapere che cosa sarebbe stato di lui. Vedere i colleghi che partivano, aspettare che gli equipaggi venissero composti, sentirsi dire di aspettare ancora, che il suo turno sarebbe venuto. Quante volte aveva pensato di gettare la spugna, guardando i suoi colleghi più vecchi, ora istruttori, che non erano mai stati nello spazio. Mai. Non era per quello che aveva fatto tutti quei sacrifici.
Ma a Colonia... ricordava quando era arrivato. L'emozione, l'orgoglio. Sarebbe diventato un astronauta.
E lì era arrivato da Sestri Ponente, dove lavorava.
Forse era da lì che veniva. Da Sestri. 
Aveva lasciato un lavoro sicuro alla Piaggio per seguire il suo sogno. 
La stabilità per la precarietà.
Ma lui non era di Sestri.
I bambini cominciavano a rumoreggiare. La maestra si dava da fare per zittirli. Agitava le mani e ogni movimento odorava di gesso.
A Sestri era arrivato da Torino, dove si era laureato in ingegneria. Sei anni e ventinove esami, una tesi e finalmente la laurea. Sei anni a studiare matematica e fisica, meccanica quantistica e teoria dei sistemi. Cristo santo, se pensava a tutte le sere passate a sbattere la testa sugli appunti e sui volumi! A saperlo adesso non gli veniva neanche voglia di cominciare.
Il primo giorno c'era una tale quantità di matricole. Le code in segreteria per l'iscrizione. Il diploma del liceo! Forse è rimasto là, sepolto dalle carte. Non che gli servisse, più che altro un ricordo del 'Beccaria' di Mondovì.
Eh, già, era da Mondovì che veniva.
Scosse la testa. 
Si sentiva stordito, le voci dei bambini rimbombavano. Per un attimo si mise le mani sulle orecchie e strizzò gli occhi, fino a rivedere la navicella durante la 'passeggiata' nello spazio. Che silenzio. Che solitudine.
Gli girava la testa, eppure non riusciva a interrompere il viaggio indietro nel tempo.
A Mondovì si era trasferito quando era morto il papà. La mamma si era messa a fare l'infermiera all'ospedale, e si erano trasferiti in una casa più piccola, e più vicina. Quando il papà era ancora vivo, abitavano a Vicoforte, proprio vicino al santuario.
-Che cosa vuoi fare da grande?
-Voglio fare il professore come te, papà.
-Ah ah, certo, ma perché non qualcosa di più strano? L'astronauta, magari?
-Papà, vuoi che faccio l'astronauta?
-Dicevo così, per dire. Non sarebbe bello?
Anche suo padre aveva volato, quando era stato investito era passato volando attraverso il parabrezza.
Guardò dalla finestra, il santuario, la cupola ellittica -come la traiettoria di un satellite. Si rivide al funerale, vicino alla mamma e alla sorella. L'auto parte lentamente, il motore al minimo, con lo scappamento che puzza di benzina. E lui inizia a camminare.
Ecco. Lo aveva trovato.
Ogni finale ha un inizio, e lui aveva trovato il suo.
Si accorse di stare piangendo.
Il bambino lo guardava, adesso, attento.
-Venivo da là sotto- disse solamente.
Il bambino annuì.


Aldo Quario

5 commenti:

  1. Lo trovo perfetto.
    La domanda, la ricerca della risposta. La risposta che fatichiamo a darci.

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  2. Ho letto e mi hai fatto venire in mente Robert Pirsig, ne "Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta" quando parla di una studentessa che non riusciva a trovare niente da dire per una relazione di 500 parole sugli Stati Uniti che voleva svolgere. L’insegnante (Fedro) prevedendo lo smarrimento in un proposito del genere le disse di scrivere qualcosa su Bozeman, Montana, la cittadina in cui si trovava la scuola, invece che sugli Stati Uniti in generale. Niente. Poi le disse di scrivere sulla strada principale di Bozeman. Ancora niente. “Limiti l'argomento alla facciata di un edificio della strada principale di Bozeman. L'Opera House. Incominci dal mattone in alto a sinistra.” Dietro gli occhiali gli occhi della ragazza si spalancarono.
    Arrivò alla lezione successiva con l'aria confusa e gli consegnò una relazione di 5000 parole sulla facciata dell'Opera House teatro lirico sulla strada principale di Bozeman. “Mi sono seduta al chiosco degli hamburger lì di fronte,” gli disse “e ho incominciato a descrivere il primo mattone, poi il secondo, e, una volta arrivata al terzo, mi veniva tutto facile e non riuscivo più a smettere. Gli altri credevano che fossi matta e continuavano a prendermi in giro, ma ecco qua. Non riesco a capire”.
    All’inizio era bloccata perché stava cercando di ripetere, per iscritto, le cose che aveva già sentito. Non riusciva a scrivere nulla su Bozeman, perché non riusciva a ricordarsi nulla, di quello che aveva sentito, che valesse la pena di ripetere. Stranamente non si rendeva conto che poteva guardare e vedere tutto da sola, senza preoccuparsi di quello che era già stato detto prima. L'aver limitato l'argomento a un solo mattone aveva annientato il blocco, perché in quel caso le osservazioni non potevano che essere sue.
    Una volta entrati nell'ordine di idee di vedere le cose coi propri occhi, gli studenti si accorsero che non c'era limite a quel che potevano dire. Fedro arrivò alla conclusione che l'imitazione era un male che andava estirpato prima di incominciare l'insegnamento vero e proprio. La scuola insegna ad imitare. Se non si imita l'insegnante, si prende un brutto voto. […]

    Ho voluto condividere questo pensiero con te :-)
    Ciao.

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  3. Perchè cancellate i commenti?

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  4. Non cancelliamo mai i commenti. Questo racconto è stato corretto dopo la sua pubblicazione e quindi ri-pubblicato, forse i commenti sono spariti per questa ragione.

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  5. Anonimo, please, ri-posta il commento.

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