La guida parla della pianta quadrata della chiesa, della Cappella Pontano, di come si volesse riprodurre il modello di tempio teorizzato da Vitruvio. Nell’aria c’è odore d’incenso e di fiori tagliati, mentre avanziamo con passi incerti sul pavimento di maiolica, calpestando fregi e arabeschi di un blu quasi liquido. Si mescolano spiegazioni ad alta voce e bisbigli sommessi, da cerimonia funebre.
E’ un continuo alternarsi di marmi e teschi e colonnine. Di colori e di grigi. Il volo, il ferro battuto, le pietre dure, le ossa.
Come la vita, vorrei pensare. Ma le immagini faticano a trasformarsi in pensieri, i simboli faticano a nascermi dentro. Sento soltanto una vaga oppressione, troppo lieve perché dia origine a chissà quali interpretazioni.
Davanti all’altare, i giochi ad incastro dei marmi nella balaustra ripropongono paesaggi del colore dell’autunno. I verdi ed i ocra di certi viali immersi nella nebbia di novembre, sull’Appennino.
Il paragone che la guida fa con le Cappelle Medicee mi fa fermare per un attimo il respiro. Niente a che vedere, penso. Poi penso a San Lorenzo, a quella facciata senza facciata che mi fa stare bene. O male, ma è la stessa cosa ed è difficile da spiegare. Penso all’odore della pelle conciata, all’aria leggera. A quando si arriva in fondo alla via e ci sono Santa Maria Novella ed il Battistero ed il campanile di Giotto. E a destra la libreria Feltrinelli.
Vorrei dirlo. Guardi, signorina, che non è che bastino pietre dure e marmo per tirare fuori il sepolcro di Lorenzo e di Giuliano.
Invece continuo i miei piccoli passi sulle piastrelle lucide, ascoltando con il mio gruppo la storia del nobiluomo Giulio Mastrilli, che nel Seicento decise di dare sepoltura nella chiesa ai derelitti e ai pezzentelli. Ascolto i dipinti e le sculture di teschi alati, le messe a suffragio, il Purgatorio che per i napoletani è più importante del Paradiso, alla faccia di Dante.
Dalla porta d’entrata, aperta su via dei Tribunali, arrivano voci e grida e l’aria azzurrata del tramonto. Sembra un altro mondo, un mondo lasciato per sempre. Quelle luci, quel chiamarsi ad alta voce. I presepi che dalle botteghe raggiungono la strada, i passanti.
Noi siamo da un’altra parte. (Dall’altra parte?)
Dopo una distesa di gradini grigi di umidità, uno stanzone sotterraneo in cui si aprono loculi di piastrelle chiare, come cucine di bambole. L’aria è densa e spessa, potremmo raccoglierla a manciate. L’odore di muffa e di fiori appassiti è così intenso che ci impregna i vestiti e la pelle.
In questi anfratti scavati nei muri, ossa antiche di quattrocento anni dimorano in un fiorire di polverose rose di plastica, pagine di quaderno che recitano preghiere accanto a santini con le foto sorridenti e lontane sottolineate da croci e date.
Dall’inizio del Novecento centinaia di persone hanno adottato questi resti vecchi di secoli, li hanno puliti e ordinati e sognati di notte, ad aspettar presagi. Senza sapere a chi appartenessero, li hanno fatti propri, raccogliendoli in piccoli altari e nicchie ricche di lumini e di immagini sacre. San Gennaro e Sant’Antonio.
A nulla son valsi i divieti affissi per tutta Napoli. Da sempre le leggi degli dei sono più forti della legge dell’uomo.
Le tibie ed i femori e gli omeri si affastellano su cuscini di raso stinto, i teschi aprono i loro occhi vuoti nella penombra quasi solida del luogo. Accanto a questi, ruderi di candele grigiastre, che in un tempo lontano hanno tinto di fumo le volte di pietra nuda. La presenza della morte, dei morti che tornano ad aiutare i vivi. A fargli compagnia.
Il sorriso perenne dei crani privi da mandibola è velato da spesse tele di ragno, che pendono scure dai mattoni sbrecciati.
Alcuni corpi hanno avuto sepoltura nella terra, in una parte raccolta del sotterraneo. Sono uno accanto all’altro, come se dormissero nei letti di un dormitorio, coperti da una coltre polverosa come sabbia. Non è terra da far nascere l’erba.
In fondo, in un loculo che splende di luci natalizie e di un pullulare di grossi fiori finti e sbiaditi, un teschio roso dal tempo, più piccolo degli altri. Ha addosso un velo da sposa, ed una coroncina di perline bianche.
E’ Lucia, spiega la guida. Non Santa Lucia protettrice della vista, quella siciliana, raffigurata con gli occhi nel piatto. Ci tiene, a precisarlo. Questa è un’altra Lucia, ma sempre una Santa.
Era una fanciulla del popolo, ammalata di tisi, che morì proprio il giorno del suo matrimonio.
Era una principessa innamorata di uno stalliere (o forse era un servo): avendo deciso di sposarlo contro il parere della famiglia, che la voleva accasata con uno del suo rango, il padre la uccise il giorno delle nozze, per non disonorare il casato.
Non si sa chi fosse, in realtà. Però viene venerata dalle ragazze che si vogliono sposare, che si affidano a lei per trovare un marito.
Mi fa una pena immensa quel teschio senza nome addobbato da sposa, immobile nel suo tripudio grottesco di petali e steli di plastica, di luminarie che disegnano un nome che forse neppure era il suo. Intrappolata per sempre in una vita e in una storia, penso. Anche dopo la morte. Come non bastasse esserlo mentre si vive.
Penso ai Sepolcri di Foscolo, quando sono fuori, sulla strada. Domani è il 2 novembre e già i lati della via splendono di mille lumini posati a terra che tremano nell’involucro rosso.
Ho pensieri confusi di cimiteri inglesi e corrispondenze d’amorosi sensi, ma di nuovo non riesco a dar corpo a quello che provo.
Da un davanzale vola giù un sacco d’immondizia azzurro, che si spacca atterrando su una montagna di altri sacchetti da cui escono bucce d’arancia, bottiglie, stracci e barattoli. La finestra si richiude subito, neppure un’ombra si scorge di là dai vetri, dietro le tende.
Dal Conservatorio nel convento di San Pietro alla Maiella arrivano le note di una Polacca di Chopin che si appoggiano nell’aria tiepida e si disperdono subito, sfiorando le piccole luci di cera che continueranno a brillare almeno fino a domattina, se non pioverà.
Alessandra Burzacchini
Nessun commento:
Posta un commento