La povertà ci ha salvato, disse la padrona di casa con umiltà francescana.
Rimasi spiazzato dall'affermazione: l'ambiente che mi circondava non era dei più poveri, con tutti quei saloni affrescati e quei camerieri trattati male. Ma si sa che l'apparenza inganna. Chissà in quali angustie segrete si dibattevano i proprietari. Stavo per estrarre il portafoglio e lasciare qualche spicciolo quando il padrone di casa mi spiegò il significato di quelle parole: la povertà li aveva salvati nel senso che, non avendo miliardi da investire nella tenuta, (“come un qualsiasi milanese”, specificò) questa era rimasta inalterata. Era identica a un secolo prima. Non erano state operate quelle migliorie avventate che a lungo andare peggiorano.
Rimasi incantato al pensiero che tutti i milanesi fossero miliardari. Ero contento per loro.
Il capostipite
Sfortuna volle che fosse ottobre. La tavolata dopo aver parlato di cavalli e affari immobiliari passò a parlare di vini e vendemmie. Stavo dunque per addormentarmi.
Per fortuna a quel tavolo c'era un vecchio decrepito e sguaiato. Per l'esattezza non stava al tavolo, sedeva su una poltrona poco distante. Gli portavano il cibo lì, sulla poltrona. Lui metteva la mano sul piatto, lanciava commenti impertinenti e per me incomprensibili. Un paio di volte lanciò anche un rutto. Doveva essere il capostipite, o qualcosa del genere, visto che nessuno osava rimuoverlo.
Lo guardavo affascinato. I soggetti più interessanti ruotavano attorno a lui. In particolare una bambina bionda sui dieci anni, doveva essere la nipote. Andava dal vecchio e confabulavano ridacchiando, mentre il resto della tavola non li considerava. E poi attorno al vecchio ruotava, per così dire, un cane enorme, tigrato, con una monumentale testa da orso. Il molosso andava e veniva dalla stanza.
Va a farsi dei giri fuori, mi urlò il vecchio come vide che lo guardavo. Tanto qua tutte le porte sono aperte, aggiunse.
Quando il cane tigrato con la testa da orso scelse me come soggetto da rivestire di bava fui tentato di carezzarlo. Poi guardai quella bocca e rinunciai. La mano mi serve.
L'animale andò dalla bambina. Tra loro c'era - lo capii da come si muovevano - una misteriosa sintonia.
Al tavolo che mi vedeva prigioniero disquisivano di vitigni autoctoni. Parlavano della filossera del 1927 e degli innesti di vite americana.
Questi americani, dissi io. Lanciai questa frase idiota tanto per fare conversazione.
Devo dire, a onore dei commensali, che la frase non ebbe successo.
Notai quella sera che il vitigno autoctono è un argomento che può prendere il cuore di un uomo. Un tipo con delle basette sinistre magnificava il colorino.
Quello che mi parve più sensato parlava del canaiolo.
Produce vini che non hanno un grande invecchiamento, disse.
Neanche io ho un grande invecchiamento, urlò l'ottuagenario sulla poltrona. Mi ricordava quei vecchi sdentati e allucinati che, infante, ammiravo in Alan Ford. Un fumetto che per il resto non sono mai riuscito leggere.
La mia vicina di tavolo mi comunicò con ammirazione che il Barone, così lo chiamò, era stato l'amante di una testa coronata. E che una volta in uno slancio di passione aveva mangiato delle mutandine femminili.
Che uomo, risposi. Ma cercai di farle capire che per me mangiare mutandine femminili era ordinaria amministrazione.
Il Barone si fece aiutare dalla nipote e si avvicinò al tavolo con la poltrona e tutto. Voleva dire la sua. Infatti la disse. Divenne serio e quasi composto, dichiarò che bisognava andare oltre il canaiolo. Che al di là di tutti i vitigni autoctoni c'era il vitigno primigenio. Il primo vitigno, come il primo uomo. Quello da cui tutti i vitigni discendevano. E che dunque alla fine i vitigni erano tutti uguali, come gli uomini. Anche se certamente esistevano i vitigni negri.
La gente si mise a ridere.
Stasera il barone è davvero ubriaco, disse la mia vicina di tavolo. Sentii nella sua voce un po' meno rispetto, in confronto a quando parlava della dieta a base di biancheria intima femminile.
Sara e la bambina
Due ore dopo la cena era finita e la gente si aggirava inquieta per il salotto.
Il grande cane tigrato era almeno un'ora che era sparito. Lo feci notare ma nessuno mi rispose, a parte la bambina.
Ora arriva, disse tranquillamente, e non si sbagliava.
Quando arrivò vidi subito che stava male. Riconobbi i chiari sintomi di avvelenamento. Non si reggeva sulle zampe e il suo sguardo era strano. Del resto, quella tenuta era un inno alle antiche, nobili, tradizioni toscane. E tra le antiche, nobili tradizioni toscane è senz'altro da annoverare l'avvelenamento.
Questo cane sta male, dissi alla padrona di casa.
E' molto vecchio e pulcioso, fu la distratta risposta.
Più vecchio di quanto pensi, puttana! si inserì vibrando di emozione l'ottuagenario che, mentre tutti camminavano col bicchiere in mano per darsi un contegno, continuava a stare sulla sua poltrona.
Dette una pacca al cane dicendo: Vai vai, non ti preoccupare per noi.
Lo segua lo segua, disse rivolto a me. Si vede che lei è un ragazzo sensibile.
Mi danno sempre del ragazzo sensibile, non so perché.
E parlando alla bambina disse: accompagnalo, Isabella.
Andammo. Il cane moribondo in testa, dietro la bambina e poi io. Isabella e il molosso camminavano come in una danza, avevano qualcosa di felino. In soli dieci minuti di cammino uscimmo dal castello e ci trovammo nella vigna. Ho sempre trovato monotone le vigne. Ma non di notte, quando il vento le fa risuonare come gigantesche arpe terrestri. Attraversammo la zona del canaiolo. La bambina me ne illustrò le caratteristiche: ha una foglia più cenciosa, mi diceva, meno lucente, l'internodo più corto.
Decisamente era una bambina particolare.
Il grande cane tigrato passò la zona del canaiolo e proseguì vero il bosco. E noi dietro.
Ma qui la vigna finisce, dissi pentendomi subito dell'osservazione idiota.
Oh sì, finisce, disse la bambina.
Cominciavo a essere leggermente preoccupato. Se era svitata come il nonno...
Lasciamola andare avanti, disse a un certo punto, mentre camminavamo tra i lecci. Appresi dunque che il cane era una femmina e si chiamava Sara.
Ci addentrammo tra gli alberi.
Mi dissi che il chiaro di luna era un sistema di illuminazione sopravvalutato.
Per cinque minuti procedemmo senza che io capissi chi me l'aveva fatto fare. Forse perché dentro il maniero la gente aveva ripreso a parlare di cavalli e affari immobiliari.
Quello là è il vitigno primigenio, disse allegramente, tutta fiera, la bambina quando sbucammo in un largo spiazzo erboso dove la luna - qui sì - spandeva il suo chiarore. Dalla parte opposta c'era una parete di roccia. La cosa straordinaria era che la parete era ricoperta d'uva, da terra fino in cima. Il vitigno primigenio la copriva come una piovra di acini. O come una parrucca.
L'odore inebriante arrivava fino a noi.
Alla base della piovra d'uva c'era Sara che divorava i grappoli.
E' ubriaca fradicia, disse la bambina.
Tutto attorno c'erano dei cinghiali che si rotolavano a terra, ancora più ubriachi del cane.
In questo periodo sono allegri, osservò la bambina. Ma devono stare attenti. Anche i dinosauri si estinsero così: perché si ubriacavano troppo.
Immagino scherzasse. Ma per un attimo guardando nei suoi occhi seri mi dissi che lei li aveva visti davvero, i dinosauri che divoravano l'uva. Immaginai un tirannosauro che si schianta al suolo inebriato dal vitigno primigenio, dopo aver lanciato il suo canto da ubriaco. La polvere che sale al cielo. Il profumo dell'uva. Guardai ancora negli occhi della bambina. Erano profondissimi. Doveva avere milioni di anni.
Enzo Fileno Carabba
pubblicato su: "Slowfood" (Dicembre 2009).
pubblicato su: "Slowfood" (Dicembre 2009).
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