Gli squali nuotano lenti e decisi, nell’azzurro mascherato dai vetri spessi. Non c’è rassegnazione nel loro vagare, non c’è la consapevolezza della prigionia. Tutt’intorno, il silenzio ovattato dei corridoi vestiti di moquette, e quest’aria densa di riflessi che sembra mare. Ogni tanto, a coprire i pensieri, un’immensa manta apre le sue ali in alto, dove il tunnel di cristallo s’inarca, creando un’ombra larga che si dissolve subito dopo, in uno sciabordare soltanto immaginato.
Passi molli, come se camminassi sul fondo del mare. Mi sfiora dalle pareti trasparenti l’incanto della barriera corallina che vive nelle sue pietre preziose inviolabili.
Appena fuori di qui, dall’altra parte del suolo e del cielo, i rumori salati di Darling Harbour, lo stridio dei gabbiani nell’aria già calda d’ottobre. I pescherecci che lambiscono i pontili, le note lunghe dei didgeridoo che hanno attraversato montagne e deserti. E il loro viaggio non ha mai fine.
Flotte di pesci indifferenti passano rapide, rasenti al cristallo. Li guardo e non mi vedono, sono già spariti. Indaffarati e veloci in quest’acqua d’Oceano che sembra la loro, in questa enorme vasca sotterranea, grande come una città.
Continuo a domandarmi se lo sanno. Se sanno dell’inganno, della prigione. Della gente che li guarda passando fra queste cucchiaiate d’oceano sottoterra. Mi chiedo se intuiscono l’imbroglio. Poi mi chiedo se l’intuiamo anche noi, noi che viviamo di sopra, nel paesaggio di sopra.
I cavalli marini hanno un’aria smarrita, se ne vanno in fretta in piccole scie d’acqua. L’hanno capito, penso.
L’hanno capito le stelle marine, che si trascinano lente in movimenti sconsolati, lasciando dietro di loro ombre di corallo.
Qui sotto, l’acqua non ha rumori. Non ci sono respiri, nessun grido.
Fuori, in alto, nel paesaggio di sopra, le grandi conchiglie bianche dell’Opera House risuonano ancora del Don Giovanni della scorsa notte. Le note di Mozart vagano fra gli archi e gli alti soffitti neri, mescolandosi con la salsedine. Prigioniere, nell’aria che si mescola al mare.
Si intitolava Sottopaesaggio, la fotografia che mi aveva fatto pensare all’intrecciarsi di pieni e vuoti, di passaggi sotterranei e quelli liberi d’aria. Il sopra, il sotto, la prigione.
Pareti di cemento una dietro l’altra. Muri di stanze senza le stanze, porte che non portavano da nessuna parte. Il grigio martoriato di un lavoro in corso con i legni già quasi rovi.
L’abbandono, le travi sbozzate sul terreno fra ciuffi di un verde improbabile. Quella tanica fra i sassi, la carcassa preistorica di un trattore.
Qualcosa che non era stato ancora costruito. Che forse non lo sarebbe mai stato. Non c’era niente nel paesaggio di sotto. E niente, a pensarci, neppure in quello di sopra.
Un’assenza che era prigione.
Qui, fra le vie ovattate di questo acquario che cammina sotto il mare, vi è un continuo ondeggiare di pareti e di pinne. Qui tutto è chiuso e protetto, e non può crescere erba che non sia alga. I movimenti sono lenti e vivi, lontani da quell’immobilità corrotta della calce che non ha avuto il soffio della vita.
Ma i cristalli moltiplicano i loro riflessi, cercando di estendere il mare che tengono intrappolato. E la nobiltà solenne degli squali toro e dei pinna bianca, quel loro incedere sicuro e vagamente sprezzante si riduce ad ampi cerchi che deviano raramente da un percorso già stabilito da una corrente preordinata.
La vita qui sotto non è così diversa da quella di sopra.
Le strade, il porto, la terra fertile dei giardini botanici. L’incurvarsi elegante dell’Harbour Bridge, in un alzarsi d’acciaio e piloni e tiranti fra cielo e mare.
La gente che cammina, che corre, che scende dai battelli. Che sale sui battelli, che va verso qualcosa.
Che non sa la prigione, che non sa.
Che sotto, nel paesaggio di sotto, dopo un giro della grande vasca ce n’è un altro. Poi un altro ancora, ed un altro ed un altro ancora.
Che sopra, in quello di sopra, dopo una porta senza la porta ecco che ne appare un'altra, poi un’altra ancora. Le puoi vedere, stando fuori, una infilata nell’altra.
E alla fine, dopo l’ultima porta del paesaggio di sopra, non si arriva da nessuna parte.
Alessandra Burzacchini
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