In Accademia Navale è tradizione accogliere allievi ospiti da molte parti del mondo, quell’anno provenivano dalla Somalia e dall’Algeria.
Gli allievi ospiti seguivano tutti i regolamenti militari dell’Accademia esattamente come i cadetti italiani, esclusi quelli che erano in conflitto con norme religiose o legali del loro paese d’origine.
Venivano alle adunate sul piazzale, vestivano le stesse uniformi dei cadetti italiani, frequentavano gli stessi corsi di ingegneria, dovevano la stessa ubbidienza agli ufficiali e agli allievi delle classi superiori e subivano le stesse punizioni disciplinari. Venivano ovviamente a mensa insieme agli italiani dove, tranne che per i cibi proibiti dalla loro religione, ricevevano lo stesso trattamento.
I somali erano simpatici e piuttosto confusionari. Ricordo che la mattina si pulivano i denti con degli strani bastoncini sfrangiati sulla punta. Ci sembrava una tecnica più primitiva dello spazzolino, ma i loro denti erano bianchissimi. Gli algerini erano più seri, molto disciplinati, affettuosi e malinconici. Ricordo che ci fu una epidemia di funghi della pelle, il gruppo degli algerini ne era particolarmente colpito, venivano curati con delle spennellature di iodio, la loro pelle scura era piena di chiazze bianche sulla schiena sempre rossa di iodio, come se li avessero picchiati poco tempo prima.
Venne il mese del ramadan. Noi italiani non ne sapevamo nulla, per noi l’unico aspetto visibile di quello strano mese era che sia i cadetti algerini sia quelli somali, tutti di fede mussulmana, non potevano mangiare o bere dall’alba al tramonto. Tuttavia, per le regole dell’Accademia, erano obbligati ugualmente a svolgere le stesse attività e a sedere a mensa con tutti gli altri, digiuni fino al tramonto.
Per loro fu un mese particolarmente duro. Data l’età e l’attività fisica i cadetti hanno sempre una fame da lupi. La tavola era l’unico momento in cui l’abituale disciplina si allentava lievemente e ci si poteva sfogare mangiando. Ricordo che per tutto quel mese noi ragazzi italiani ci accanivamo contro i nostri ospiti emettendo mugolii di piacere ad ogni boccone, offrendo continuamente loro una forchettata di pastasciutta o un pezzo di bistecca. “Ma sei proprio sicuro?” “Solo un boccone”, “E dai, che non ti vede nessuno”.
Ma nessuno toccava niente, anche se non allo stesso modo.
C’era un ragazzo somalo, il più simpatico, che si arrabbiava sempre, e se la prendeva a male. Ma era il più giovane, e i bisticci fra lui e i più insistenti fra gli italiani riguardo al cibo proibito assomigliavano a quelli suscitati da molte altre futilità quotidiane: liti fra cuccioli d’uomo.
Mi ricordo anche di un ragazzo Algerino, Djamal, era uno di quelli che avevo visto in infermeria mentre gli curavano la pelle con lo iodio. Un ragazzo molto alto, massiccio, silenzioso, con l’aria di chi soffre particolarmente per la lontananza da casa.
Lui non si arrabbiava per la nostra insensibilità, anzi ci sorrideva bonariamente. Una volta, a tavola, mentre noi italiani mangiavamo, cercò persino di spiegarci con calma che cosa effettivamente rappresentava per lui quel mese. Cominciò a raccontarci della sua terra e della sua storia, proseguendo fra i nostri lazzi e le ironie. Arrivò fino al punto che avrebbe dovuto anche parlare di Dio. Ma era impossibile. Quindi si scoraggiò e ritornò silenzioso come al solito, ma non ostile.
Ora sono passati 30 anni e la sua faccia bonaria mi è tornata chiara nel ricordo, senza motivo. Credo oggi che proprio in quel momento di frustrazione lui ci volesse bene. Quello era forse il significato del suo sacrificio lungo un mese. Credo che ritenesse di farlo anche per noi.
Forse era proprio questo che lui cercò di spiegarci senza riuscirci. Ma soffriva di nostalgia, e forse in quel momento anche il suo digiuno gli sembrò una cosa inutile, e noi non degni della sua sofferenza.
Dopo un anno tornò in Algeria, che di lì a poco fu scossa da una sanguinosa guerra civile.
Spero che sia vivo, sarebbe bello incontrarlo e digiunare un giorno insieme, parlando di qualcosa di grande.
Carlo Zei
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