venerdì 16 maggio 2014

In luce

Che poi nascere a Firenze è stato un errore, ma quando me ne sono accorto era comunque troppo tardi per opporre una resistenza che avesse un senso, una opportunità di rimediare, troppo tardi per una riparazione del dolore. Sarebbe stato davvero molto meglio apparire in una città moderna, in una di quelle elettriche metropoli dove respiri il cambiamento, dove ogni giorno si porta dietro un accento differente e misuriamo il passare del Tempo in base a quanto siamo riusciti a mutare del nostro alfabeto, del nostro modo di costruire i pensieri, anche solo per il gusto di sentirci vivi, immersi nel flusso senza logica, alla deriva ma felici di assecondare la corrente. E negli anni sempre si ripete con gli amici quanto ci pesi questa immobilità. Lo abbiamo ormai detto una infinità di volte, dentro innumerevoli salotti, a centinaia, forse a migliaia di persone, tanto da essere noi stessi disgustati del tono della nostra voce condannata a ripercorrere il labirinto dell'impotenza.
Abbagliati da questa condanna siamo sempre in attesa di un miracolo, di un evento che possa creare l'illusione di avere spezzato il cerchio magico dell'isolamento. Così anche entrare in uno spazio nuovo dedicato all'arte di oggi può costituire una specie di prodigio, oltrepassi una soglia ed entri in contatto con la visione contemporanea, non è questione di tempo: l'opera potrebbe essere vecchia di anni oppure ancora da fare, è una questione di atmosfere. Entri comunque nell'intimità di un pensiero visivo. Avevo guardato dentro la prima stanza attraverso la vetrata dalla strada, alcuni giorni prima dell'apertura della mostra. Forse il vetro era molto polveroso, forse il buio della serata in arrivo mi aveva tradito: ero riuscito solo a scorgere la presenza di una massa scura, una enorme palla indecifrabile.



Non avevo capito che si trattava di un teschio, tema molto frequentato nella storia dell'arte di ogni epoca, però in questo caso funziona come un giocattolo affettuoso, intrecciato in tubi e ferro, come fosse luogo di passaggio per comunicazioni pubblicitarie, ma in piena serietà. La sorpresa più grande arriva se vi spingete oltre, passate in un corridoio e vi calate ad un piano sotterraneo.
Scendere pochi gradini, un gesto elementare, eppure qui brilla la differenza tra quieta contemplazione e vero rischio. Di sotto un guardiano composto di tubi grigi ci aspetta in piedi, figura dell'attesa, custode e testimone di qualche trascorso prodigio.


Più imprevista di ogni altra opera qui raccolta mi è parsa la muta dei cani solidificata in pesante e guardingo atteggiamento.
Il gruppo avanza fedele ad una missione, potrebbero anche essere dei lupi dedicati semplicemente alla sopravvivenza. Il movimento qui è ghiacciato nel peso, nella durezza, nella assoluta naturalezza della scultura.


Risalire alla superficie significa trovare altri oggetti definiti in un orizzonte grigio, organi del corpo umano in forma di residuo industriale, ramificazioni con poca memoria del corpo vivente.


All'uscita resiste nella mia mente l'immagine della muta degli animali di alluminio, smagriti. Estremo riferimento ad un'idea di comunità.


Stefano Loria (testo)
Carlo Zei (immagini)

Ciò che resta, Paolo Grassino. Eduardo Secci Contemporary.
Via Maggio, 51r, Firenze. 

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