Nessuna forma adeguata.
Lavinia mi diceva – molti anni fa, in
un’altra vita ben più soddisfacente – che se avesse potuto avrebbe smesso di
dormire per almeno sei mesi, in modo da passare tutte le notti a scrivere un
diario, una serie di quaderni dove la scrittura sarebbe stata un flusso di
immagini, uno scorrere come nell’imitazione dell’accorciarsi del tempo, secondo
dopo secondo, ma senza l’ansia che potrebbe derivare da un’idea di questo
genere, quando sembra di ascoltare il tic tac che ti brucia la vita rimasta,
no, Lavinia pensava ad un lavoro in cui la precarietà delle cose e la finitezza
di ogni orizzonte venissero redenti, restituendo pura esistenza ai momenti
nascosti nel dettaglio minimo, e questa impetuosa corrente non la devi ostacolare
con gli strumenti della ragione - me lo ripeteva spesso – non voglio filtrare
troppo le esperienze, non voglio purificare, sterilizzare l’energia del
vissuto, ad esempio, devi ammirare quel riflesso di sole sul pavimento, lo
spettacolo, il raggio incandescente sopra le mattonelle di cotto consumate dai
passi di quelli che hanno lavorato in questo granaio, arriva la luce del sole e
scandisce un battesimo degli spazi, vedi – mi spiegava Lavinia, sempre più
convinta – questo riflesso è una specie di tomba di tutte le mie ambizioni, qui
sono concentrate tutte le mete alle quali non giungerò mai, il bagliore mi
acceca e significa che non potrò andare oltre questo pomeriggio, con
l’isolamento, con la bellezza stupefacente della campagna intorno a noi, pesa
la nostalgia di mondi inaccessibili, è una dolorosa limitazione, sento che non
dovrebbe finire così.
Nel buio del grande ambiente chiuso la pozza
luminosa sul pavimento resisteva, lei mi disse: c’è troppa luce qui, per
favore, usciamo fuori a camminare sul prato.
Stefano Loria (testo e immagine)
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