martedì 25 giugno 2013

Non a caso

La facciata esterna dell'edificio era intatta, piacevole, quasi nuova: le vetrate erano quasi completamente intere, il paramano non si era sbriciolato, non c'era ruggine alle inferriate. Non aveva l'aspetto di una vecchia fabbrica abbandonata.
Contrastava molto con l'interno. Superato il portone, la scala interna presentava un intonaco slabbrato e scrostato, sporco, con detriti a occupare le pedate.
Giacomo salì i tre piani e ispezionò tutti i saloni che trovò, due per piano.
Erano stanzoni ormai spogli e vuoti, dove le macchine utensili erano state smembrate e portate via, e dove rimanevano solo grosse impronte rettangolari sul battuto di cemento, spaziate regolarmente e intervallate da colonne di ghisa nere.
Alla fine scelse il salone del terzo piano, quello con le vetrate più grandi. Erano vetrate particolari, che davano sul lato della fabbrica dove c'era il torrente. Erano talmente vaste che sembrava quasi che mancasse una parete e che la montagna fosse lì, a portata di mano. Quadrettata con linee d'acciaio.
Sembrava quasi di vederli, gli operai, a faticare nel fracasso dei telai che intimidiva, il fracasso che li avrebbe resi sordi nel tempo, attenti alla navetta che schizzava avanti e indietro come un proiettile, ogni tanto sollevare lo sguardo verso le cime brillanti nel sole.
A metterlo a posto sarebbe diventato un loft fantastico.
Sì, quello era il posto più adatto.
Erano giorni che girava la provincia in cerca di un luogo che potesse convenire: aveva visitato decine di capannoni e fabbriche abbandonate, senza che nulla lo emozionasse, lo colpisse.
Ma ora l'aveva trovato.
Giacomo controllò la bussola: la vetrata era esposta a ovest, la luce migliore sarebbe stata nel pomeriggio. Decise per le sei. Non voleva che la luce naturale fosse troppo invadente: la luce la decideva lui, il fotografo era lui.
Si guardò intorno un'ultima volta: muri nudi intonacati, colonne nere e un battuto di cemento. E il niente lasciato dalla avidità degli uni e dalla fame degli altri.
Fece mentalmente l'inventario: un generatore per l'energia elettrica, un paio di riflettori sarebbero stati sufficienti. E la sua attrezzatura standard, con la Mamiya che costava un occhio della testa.
Adesso occorreva contattare la modella; il soggetto ideale: capelli neri, lunghi, lisci e carnagione nivea.
I capelli andavano bene anche tinti.

Entrò in un internet café con il suo portatile, lo accese e lanciò tor, il software per la navigazione anonima.
Nella casella degli indirizzi digitò "www.escort-biella.com". Non erano proprio delle modelle professioniste, ma costava meno che non passare per agenzie. Lì i prezzi erano proibitivi. Non cercava quelle che ricevevano in casa, ma ragazze disposte a spostarsi: questo restringeva la scelta. E poi l'aspetto: niente ragazze di colore, voleva l'incarnato bianco. Una ucraina sarebbe stata l'ideale.
Giacomo non ci mise molto a trovare il soggetto. Tanja, si faceva chiamare. Aveva gli occhi come il Perito Moreno. Era bella. Che ci faceva, in un sito di escort? Si chiese. E si rispose: soldi, probabilmente. O magari era stata attirata in Italia con promesse di lavoro e altri luoghi comuni.
Si segnò il numero e si mise alla ricerca di una cabina telefonica. Ce n'erano sempre meno. Sarebbe diventato un bel problema, prima o poi. Ne trovò una defilata. Ispezionò con discrezione i dintorni: in una cittadina di provincia, non c'era gran rischio di trovare telecamere installate, ma non si sa mai. 
-Ciao amore, sono Tanja.
-Ciao Tanja.
Riuscì a convincerla a dedicargli l'intero pomeriggio del giorno dopo, spiegandole che era per un servizio fotografico e promettendole che avrebbe pagato anche più della tariffa. Riuscì anche a farle accettare il pagamento in contanti invece che con carta di credito. 
-Ti passo a prendere per portarti sul set.

-Ma questa è una fabbrica vecchia.
-Sì, una fabbrica abbandonata. Il set è al terzo piano.
-Senza ascensore?
-Senza ascensore, certo.
Tanja accettò tutto senza scomporsi. Era abituata a ben altro: essere pagata per delle foto, invece che per il solito, era un lusso.
Nel salone il generatore era già acceso. I riflettori avevano lampade che mandavano una luce particolarmente fredda, livida, vagamente azzurra. Aveva usato delle skywhite a 8000 K. Un pannello argentato era posto vicino a due blocchi di cemento, uno più grande dell'altro.
-Spogliati, per favore.
-Mi devo mettere lì?- indicò il cemento.
-Sì.
Tanja esitò.
-Sono puliti, stai tranquilla.
-No, è che... sono freddi.
-Le lampade sono calde.
Tanja si guardò intorno, poi fuori dalle finestre.
-Amore...
-Cosa c'è?
-Potresti pagarmi adesso?
-Certo, scusa. Ecco- le porse le banconote.
-Non sei italiano, vero? Il tuo accento...
Giacomo accese lo stereo portatile con su “Elephant”. Il basso di "Seven Nation Army" sembrò rilassarla. Tanja sorrise scuotendo la testa a ritmo.
Giacomo la guardò mentre si spogliava. Aveva dei vestiti dozzinali, eppure su di lei facevano un gran effetto. Era bella, e Giacomo sentì i battiti accelerare. Lei tirò giù la cerniera posteriore del vestito di poliestere e cominciò a farlo scivolare sulle spalle. Non portava reggiseno. Giacomo guardava la schiena nuda, bianca. Deglutì.
Lei si voltò verso di lui e sorrise. Sapeva l'effetto che faceva. Il vestito scivolò a terra. Non indossava nient'altro. 
Jack White cantava 
and I'm bleeding 
 and I'm bleeding 
 and I'm bleeding 
 Right before the Lord.
Tanja restò così, nuda, di spalle, con solo delle scarpe di vernice nera e tacco a stiletto. Si piegò in avanti per slacciarle. Giacomo rimase senza fiato. 
-No, aspetta...
Lei si tirò su, squadrandolo.
-Puoi tenere le scarpe.
Lei sorrise e si chinò a raccogliere i vestiti.
-Da' qua.
Li prese lui, una boccata di profumo troppo dolce lo nauseò.
-Ti faccio un pompino prima di iniziare?
-Cos..? No, grazie. Sei gentile.
Lei alzò le spalle e si sedette sul blocco di cemento, guardandolo interrogativa.
Il sole si stava abbassando. Le vette delle montagne erano ancora innevate e la luce sembrava colare lungo i loro fianchi candidi.
-Sei splendida.
Tanja sorrise.
-Cosa devo fare?
-Adesso vengo a sistemarti.
Tanja lo vide rovistare nella trousse, poi si avvicinò, alle sue spalle.
Giacomo la scrutò un'ultima volta, sfiorò le spalle con i guanti di lattice e sospirò.
-Allora... Tanja, per cortesia,  piega la testa...
Giacomo estrasse la siringa di etorfina e la iniettò velocemente nel collo. Tanja divenne improvvisamente pesante tra le sue braccia.
Le piegò la gamba destra, fermando il piede sotto la gamba sinistra. Spostò la testa sul lato, lasciò i capelli fluire lisci. Alzò il braccio destro fin dietro le spalle, sollevando il seno. Osservò.
La posa metteva in risalto il corpo bianco, perfetto. Languido. Abbandonato.
Tornò alla macchina fotografica a curare l'inquadratura. Aggiustò le luci, la posa, ogni cosa, ogni dettaglio, finché tutto non fu perfetto.
Un'ultima occhiata.
Infine Giacomo prese il bisturi e recise la giugulare. Guardò il sangue colare dolcemente sul corpo, sul cemento.
Si mise a scattare.

Non mi prenderanno mai.
Certo, sono meticoloso. Cerco di non lasciare tracce, né su internet, né telefoniche. Uso guanti di lattice, non tocco il corpo, ho i capelli rasati. Mi riprendo i soldi. Brucio i vestiti. Cambio città.
Ma non è per quello. Un errore posso sempre commetterlo.
È che arrivano tardi. Sempre.
E il motivo si è dileguato.
Non capiscono perché le uccida.
È il sangue. Il colore. è così bello. Intenso, emozionante, stimolante. Inebriante.
Quando riguardo le mie foto, non riesco a non entusiasmarmi. Faccio in modo che sia l'unico colore presente, tutto il resto è bianco, nero, grigio. 
Il rosso del sangue è quello che deve risaltare.
E la polizia le trova che ormai tutto è diventato marrone, sporco, disgustoso. Deprimente.
Il mio è un tributo alla bellezza, al sentimento, all'emozione. Alla Creazione. Alla Vita.
A Dio.
Perché Dio, il sangue, non l'ha fatto rosso a caso.

Aldo Quario

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