mercoledì 29 agosto 2012

Non ho capito cosa hai detto


Va a farti fottere porco disse  lei senza girarsi a guardarlo. Aveva i capelli sugli occhi, come a coprirsi le lacrime. Sembravano bagnati, o cosparsi di schiuma. Tanto lo so che hai un’altra, continuò, e si accese una sigaretta. Rimase in poltrona, cercando di trattenere i singhiozzi. Lui la guardò, poi scosse leggermente la testa e riprese a fare le valigie. Ne aveva abbastanza di ripetere a vuoto sempre gli stessi discorsi. Lei si alzò e si diresse con passo incerto verso la credenza. Si versò una razione abbondante di un liquore ambrato e vuotò mezzo bicchiere in un sorso. Vide che lui stava per dirle qualcosa e lo prese in contropiede. Non sono cazzi tuoi disse, con la faccia incattivita. Non più. Lui non rispose. Si asciugò gli occhi e i lati della bocca e tornò a sprofondare in poltrona. Vuotò il bicchiere, sembro riacquistare forza. Dove andrai? Gli chiese, con quello che voleva essere un tono neutro. Lui si fermò a guardarla. Sembrava avesse camminato in mezzo a un acquazzone. Per ora dai miei, rispose. Lei non fece niente per frenare un’espressione di disgusto. Li detestava. Borghesucci astiosi. Non l’avevano mai ritenuta all’altezza. In quel momento probabilmente si fregavano le mani. Avevano ragione no? Non era adatta al loro bambino. Punto. Si fottessero. Lui chiuse la valigia. La guardò cercando le parole definitive. Credeva di aver fatto tutto il possibile. Lei non sentiva ragioni. Non aveva fatto un progresso che fosse uno. Non aveva fatto niente, niente per migliorare la situazione. Non aveva ancora aperto bocca che lei si alzò e gli si fece vicino. Gli sussurrò qualcosa che lui non colse e gli si gettò tra le braccia, prendendogli a pugni la schiena. Non ho capito, le disse lui. Non ho capito cosa hai detto. Lei lo spintonò, e cominciò a dar fuori di matto. Vai via! Vai via porco! Torna da tua madre! Lui prese la valigia e uscì. Lei pensò per un attimo di lanciargli contro il bicchiere, ma lasciò perdere, o forse non fece in tempo. Lui fuori raggiunse la macchina in una specie di apnea, sistemò la valigia nel baule e partì. Fermo al semaforo si sentì improvvisamente stanchissimo e pensò di fermarsi a bere qualcosa. La situazione aveva un che di umoristico. Fermarsi a bere dopo aver lasciato una moglie alcolizzata. Ma non gli venne da ridere. Il clacson di quello dietro lo scosse dal torpore. Avanzò di qualche decina di metri, accostò e usci per vomitare. Mentre si puliva con le salviette, con in bocca quel sapore schifoso e gli occhi pieni di lacrime gli tornò a mente l’immagine di lei all’ospedale. Si sentì male di nuovo. Gettò le salviette a terra. Una volta su mille, diceva il dottore. Praticamente non esistono effetti collaterali. E lei invece era distesa nel sangue. Non lasciarmi, gli diceva. Poi prese a bere. Era sempre in giro per casa col bicchiere in mano. In pigiama, smagrita, coi capelli sporchi. Non tornò a lavorare. Rifiutava le cure. Non chiedeva aiuto a nessuno. Semplicemente non ne era capace. Si stava lasciando morire. Sua madre voleva farla internare. Lui non l’amava più. Non ci riusciva. Ma a lei questo non sembrava importare. Non sembrava importarle di niente. Chiuse la macchina e si avviò verso un bar. Aveva bisogno di bere qualcosa di forte, sul serio. Non riusciva a ricordare cosa le avesse detto mentre se ne andava. Ordinò un cognac. Anche lei stava male. Si era accasciata sul pavimento, aveva sentito la macchina partire. Figlio di puttana, diceva tra i denti, e non riusciva a alzarsi. Arrivò tentoni fino al tavolo del soggiorno e si tirò su. Pensò di farsi il caffè per snebbiarsi ma finì a versarsi dell’altro liquore. Quasi si strozzò nel trangugiarlo, tossì, lanciò il bicchiere contro il muro. Sprofondò nella poltrona, fumando e piangendo, una loro vecchia foto sulle ginocchia, la bottiglia stretta in mano come un rosario. Io lo volevo, diceva. Figlio di puttana. Anche lui per poco non si strozzò col suo cognac. Dentro al bar lo guardavano. Gli occhi rossi, l’aria sbattuta, a bere liquore di primo pomeriggio. Come sua moglie pensò, e si fece schifo per questo. Si sentì improvvisamente un vigliacco, si sfregò gli occhi per scacciare il pensiero, bevve un altro sorso. Che cosa aveva detto? Pensò di tornare indietro per chiederglielo. Si disse che non era il caso. Rimase seduto al tavolino, con tutti gli sguardi puntati addosso. Il cameriere gli si fece vicino. Era appena un ragazzo. Doveva essere molto timido. Si sente bene, gli chiese sottovoce. Lui si girò e fece cenno che si, andava tutto bene. Mentre il cameriere faceva per andarsene lo fermò. Senta, scusi, gli disse. Volevo… e si bloccò, con aria pensosa. Non finì la frase. Pagò, usci e tornò verso la macchina. Aveva un inizio di emicrania. La luce del sole lo disturbava. Cercò gli occhiali nella tasca della giacca, non li trovò. Volevo, aveva detto lei. Ora ne era abbastanza sicuro. Ma di cosa parlava? La luce gli dava un maledetto fastidio. Entrò in macchina, trovò gli occhiali nella tasca laterale, se li mise cercando conforto. Aveva caldo. Lì dentro si soffocava.  Abbassò i finestrini per prendere aria e una giovane mamma gli passò di fianco, spingendo una carrozzina. Allora capì. Rimase accasciato contro il volante, come morto. Nella foto erano seduti sotto un albero. Era un pomeriggio d’aprile, un picnic di pasqua. Sembravano molto più giovani. Era il giorno che lui le chiese di sposarla. Almeno cosi le sembrava. Non ne era del tutto sicura. Non era più sicura di niente, da un bel pezzo a questa parte. Pensò che forse era il caso di togliere i coccidi vetro dal pavimento. Pensò che non doveva pensare più a niente, mai più. Io lo volevo il bambino, figlio di puttana, ripeté con la bocca serrata. 

Filippo Rigli 

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