l tappeto srotolato sopra il pavimento di legno del salotto nasconde certo la cifra di un vagabondaggio. Mi sono sforzato di interpretare la foresta degli arabeschi. Tutto inutile. Il mistero della costruzione rimane intatto. Potrebbe essere la nostalgia del decennio Settanta ad infiammare ancora oggi – a tanti anni luce di distanza, a partire dalla lunghezza dei capelli per terminare con scomparsa di qualsiasi utopia di liberazione - la quieta serata estiva del soggiorno, con la luce declinante attraverso il campo azzurro via via sempre più intenso e doloroso. Potrebbe essere la felicità della sperimentazione assoluta, la scheggia di follia conficcata in un bersaglio di bellezza assoluta. Potrebbe essere il dinamismo del disegno sonoro, dal pianissimo ricamato con tocco superfragile fino alla violenta esplosione della forma, con una veemenza difficile da accettare.
L'intero tracciato di Larks' Tongues in Aspic si dispiega nello spazio domestico e ne rinnova il tessuto con una fioritura di sorprese. Mi alzo dalla poltrona in cui mi ero sprofondato all'inizio dell'ascolto. Sono in piedi, pronto all'applauso. Non sto ascoltando. Mi sembra di vedere tutto un caleidoscopio di correzioni possibili alla realtà semplificata e senza riscatto in cui troppo a lungo ho abitato.
Stefano Loria
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