Penso di avere sistemato tutto, dovrebbe
essere a posto ogni singolo elemento del mio Teatro della Scrittura, una
definizione con le maiuscole, a significare che si tratta di un rito
eccezionale, un sorta di sacrificio umano (il mio). Nel momento che mi colloco
al tavolo, davanti alla tastiera, se alzo lo sguardo dallo schermo mi pare che
il salotto sia un palcoscenico adeguato, illuminato da poche lampade con la
luce fioca, attenuata come piace a me. Per questo inizio infatti temo la troppa
luce, mi basta avere guardato a lungo – poco fa - quella del pomeriggio
invernale che si spengeva lentamente, il declinare delle tonalità di azzurro
verso un blu profondo che mi sembra di buon auspicio, la promessa vellutata di
nuovi incidenti, vibrazioni, scoperte.
Anche gli oggetti in cima alla grande
libreria nera alle mie spalle – è una struttura in legno massiccio ma risulta
una forma leggera, una scultura minimalista -
ho fatto bene a spostarli. Il piccolo quadro astratto del pittore
americano, una specie di astrazione primitiva essenzializzata, soffriva un po’
nella posizione precedente, non so dire i motivi esatti, forse era soffocato
dalla fotografia della fabbrica di inizio Novecento che gli avevo messo
accanto, oppure la luce dalla finestra colpiva i colori scuri con una
angolazione inadeguata, fatto sta che pareva sbertucciato, diminuito ad un
grado espressivo ribassato, aveva perso la capacità di pronunciare le proprie
forme con sicurezza, era sbiadito retrocedendo ad un balbettio poco piacevole. Adesso
invece, collocato in cima ad un’altra libreria – al lato opposto del salotto,
identica struttura di legno massiccio, ma di colore bianco – fa un figurone,
credo che la mossa vincente sia stata piazzarlo al termine di una fila di libri
antichi con le rilegature preziose, le lettere dorate splendenti sulle coste ti
suggeriscono un’idea del valore immenso della letteratura, anche se non vengono
letti emanano già solo a contemplarli una forza indiscutibile. Così il quadro
astratto dai colori scuri del pittore americano, elegante nella sua semplicità,
si nutre in qualche misterioso modo dell’energia emanata dalla presenza dei
libri antichi.
Da quale incastro di arredamenti potrà
scaturire il flusso espressivo, questo non mi è chiaro, ma non importa, perché
la sorgente della scrittura è bene che resti misteriosa, intangibile, una fonte
inaccessibile a me per primo che invece tento di scrivere. In un momento sono
convinto che possa contare molto la nostalgia per un amico perduto, scomparso
troppo presto, aveva vissuto in fretta, forse sapeva di avere poco tempo a
disposizione per le sue scorribande. Era già un maestro, un vecchio saggio
quando ci siamo conosciuti, eppure eravamo entrambi poco più che ragazzini, lui
più vecchio di me di qualche misero anno, però sembrava indicarmi sempre la strada,
dava consigli molto importanti, come se offrisse i frutti di un’esperienza di
cui si era impossessato prima di ogni altro nel nostro gruppo di giovani amici.
Il vuoto lasciato da E. sembra plasmare qualcosa della mia vita anche adesso
che lui non esiste più, perché la sua assenza è diventata un modo di misurare
gli eventi che mi accadono, quando mi sforzo di immaginare cosa avrebbe
pensato, fatto, detto, risposto, nel momento presente, prolungando di fatto la
sua esistenza interrotta bruscamente dentro la mia di adesso che sta
maldestramente continuando.
Poi tutto ritorna ad un punto dove è
inutilissimo ricordare, prendersela con il proprio destino, maledire le fortune
altrui, farsi promesse che già sappiamo non saremo in grado di mantenere.
Bisogna celebrare l’occasione di restare in silenzio, nel salotto appena
schiarito dalla prima luce del mattino, desiderando di essere in un luogo del
tutto diverso, per esempio in cima ad una enorme cascata. Mi sporgo in avanti
per lasciarmi spruzzare dall’acqua che ritorna in alto nella forma di nuvole di
micro pioggia così sottile e densa da costituire un velo aderente a perfezione
contro la pelle ed i vestiti bagnati. Un abito nuovo, necessario. Un ultimo
regalo degli dei.
Stefano Loria
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