mercoledì 22 ottobre 2014

Sogni disonesti

Una stanza bianca. leggo un numero in alto, lungo lo stipite, ma non sono sicuro delle cifre. a terra c’è un pavimento uniforme, steso in maniera ordinata, quasi pettinato. Non ha venature, né porosità. Mi guardo intorno, scuotendomi da una posizione semi fetale, intorpidito da un sonno che non ha regalato alcun riposo. C’è una finestra, in alto, piccola e geometrica, da cui filtra una luce insapore e diagonale. Come un occhio di bue, illumina in maniera asettica un riquadro di pavimento. Non ci sono attori, sul palco. Solo una sedia, di quelle di fòrmica verdastra ed ospedaliera. Quelle che aveva nonna in cucina, quando facevo merenda e guardavo la televisione e ridevo, sbuffando briciole che sembravano pulviscolo solare.
Resto con le braccia lungo i fianchi e mi osservo, vestito di un verde che non mi appartiene, mentre riacquisto una sensorialitá sconosciuta. Intravedo altre cose, oggetti che sembrano intrecci di ferro e di vetro, puliti, decisi nelle forme e del tutto amorfi per toni e colori. Percepisco odore di alcol e disinfettante e qualcosa che mi ricorda le mandorle e le corse tra gli alberi, sotto il vulcano. E’ l’odore di tutte le verginità che ho perduto, l’infanzia che ho visto passare, l’adolescenza che non si è fatta ingabbiare, la maturità che non ho capito. E’ l’odore che avevi addosso quando abbiamo fatto l’amore. Mandorle. Come se potessero fiorire alberi nodosi e grandi in questa scatola bianca.
Mi chiedo perché sono qui. Mi scopro, orizzontale ed immobile, connesso ad una strana rete di cavi, immerso in una sinfonia di led che riportano monosillabi informativi ad occhi che non stanno guardando.  Allungo una mano cercando di ritrovare il senso epidermico di quello che ho intorno. Plastica e ferro e cose fredde, che non sembrano avere anima. Niente che risponda alle domande che formulo con la mia voce interiore ma che non riescono a fare il solletico alle corde vocali.
Spaesato, come quando ti ho detto di sì. Ignaro, come quando ho messo i miei piedi nelle tue impronte. Disperso, come quando ti ho cercata, senza trovarti. E tu, terribile e splendida, come sei sempre stata in certi ricordi che ho dimenticato.
Poi mi investe una luce diversa ed una specie di calore che sa di consapevolezza. Ho il tuo nome sulle labbra, la stanza è deserta. A Roma fa caldo anche al mattino.
Il cielo è bianco ed afoso ed io faccio sogni disonesti.

Andrea Maugeri

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