martedì 30 settembre 2014

Nel cortile del fauno

Il movimento dell’autobus è talmente monotono che mi mette sonno e mi trovo a Borgo Covile.
Scendo dall’autobus.
- A che ora è il prossimo? – domando all’autista.
- Alle quattro – risponde lui – mi dispiace.
E di che?
Mi va l’idea di vedere cos’è cambiato dall’ultima volta che sono stata qui.
Posso prendermela comoda e ora la calura che c’è fuori non mi disturba più, dopo il sollievo che ho avuto dal momento di riposo alla stazione.
Quando esco sulla piazza, l’imponente edificio della Cantina Vinicola mi attira come un vecchio conoscente riconosciuto in una calca di estranei.
Ho parlato di un edificio: sì, ma è diviso in tre parti.
C’è la villa padronale con gli uffici, proprio di fronte alla stazione e dietro di essa, nello slargo di sinistra, c’è il reparto di vinificazione vero e proprio.
L’ho sempre visto da lontano, quello.
Troppa gente e troppo traffico.
E poi è una massiccia costruzione gialla che mi intimidisce, malgrado il leone rossiccio con il marchio della cantina non sia male.
Fa pensare alla creatura di un bestiario mitologico.
A me piace ben altro.
Curiosare nel piano inferiore della villa padronale, perché ci sono due stanze visibili, anche se lo a metà, per via dei cortinaggi di velluto verde.
Si tratta di due sale dove il tempo si è fermato: nella prima, quella di sinistra, ci sono fotografie di vigneti e anche di pietre con scolpiti volti medioevali.
So che sono pezzi di colonne di chiese di campagna del Duecento.
E questo mi dà sempre un brivido.
Che coraggio, prendersi pietre consacrate e metterle in cortile.
Ma c’è anche una statua di epoca più recente, nella fotografia che si trova nella sala di destra.
E io per gioco allungo il collo, occhieggiando anche i fiori secchi incorniciati e appesi al muro accanto alla fotografia che tanto mi attira.
Non so da dove vengano di preciso, ma ora che la finestra è socchiusa, il profumo fantasma di quelle corolle sotto vetro mi arriva fino alle narici come ai tempi delle medie.
Come allora, stringo le inferriate panciute che proteggono la finestra e mi faccio coraggio.
Voglio andare a vedere il cortile che c’è qui dietro da sola.
So che da queste parti lo chiamano Il Cortile del Fauno e che tutti lo considerano pericoloso.
Soprattutto all’una del pomeriggio.
Sembra che a quell’ora, non importa in che stagione, sbugiardi i traditori.
Tipo una Bocca della Verità, insomma.
Io non ci ho mai creduto.
Il mio migliore amico dai tempi delle medie sì e mi ha sempre messa in guardia dal combinarne qualcuna delle mie: posso crearmi tutti gli alibi che voglio, ma lui li scoprirà, visto il suo conoscente da Berselli.
A me non importa: voglio vedere comunque come sta il Fauno.
Magari, nel cortile c’è qualcosa di nuovo.
Dicono che a Costanzo Berselli piaccia ammucchiare qui dietro tutto quello che trova degli avanzi di spedizioni archeologiche.
Io non mi adatterei a vivere in una specie di museo a cielo aperto come sta facendo lui, ma i gusti sono gusti.
Quando arrivo nel Cortile del Fauno, ci sono le stesse testimonianze archeologiche delle fotografie.
Da quel punto di vista, il tempo si è fermato.
Il Fauno siede sempre sulla grossa pietra tonda  che ricordavo dai tempi delle medie.
Il cancello è chiuso, non posso avvicinarmi più di tanto alla statua.
So di certo che è ottocentesca.
E ne noto la squisita fattura anche di qui.
Ha un aspetto molto credibile.
Sembrerebbe quasi in grado di spiccare un salto e balzare verso di me con le zampe caprine.
Forse può farlo davvero ma non ne ha voglia.
Fa troppo caldo.
Meglio sedere lì, con in mano la coppa e sorridere verso il cancello, chissà che qualcuno non venga ad aprire.
Magari, nel mentre, ci sarebbe anche qualche battuta salace da fare, visto che persino il custode del cortile museo ha qualcosa da nascondere.
E a me non piace vedere quelle pietre scolpite.
Una è addirittura un’acquasantiera.
La sua vicina è una meridiana di pietra con il simbolo di una falce lunare e di una creatura canina a fauci spalancate.
Ho deciso che è meglio tornare indietro.
Il sorriso del fauno è inebriante come il vino contenuto nella coppa che ha in mano.
Arretro.
La statua è di bronzo, come la coppa.
Da lontano sembra nera, specialmente nelle sere autunnali.
Ora, in pieno giorno, ne vedo le venature verdognole.
Quasi due secoli di intemperie hanno lasciato il segno.
Il mio sguardo si sposta verso l’esposizione di reperti più antichi.
Noto che hanno rimesso a nuovo il mortaio di pietra e l’incudine.
C’è anche un basto da buoi.
Non credevo che ci fossero delle novità, dopotutto.
La mia curiosità è da vili.
Ma devo sfuggire a quegli occhi vivaci e a quel sorriso ambiguo.
Quasi avessi fatto chissà quale torto ai miei nuovi amici.
Sento lo sguardo del fauno, per quanto tenti di ignorarlo.
E ho l’impressione di sentire mormorare gente in cortile.
Gli angoli in ombra sono dei ricettacoli perfetti per delle presenze che non voglio vedere.
D’accordo.
Posso aver mancato a qualche promessa, ai tempi della scuola.
A chi non succede?
Forse ho perso degli indirizzi, durante l’ultimo trasloco.
E allora?
Alzo lo sguardo.
Vedo gocce rossastre alzarsi dalla ciotola di bronzo del Fauno.
Che vino è?
Non voglio saperlo.
Mi soffermo per un attimo sulle gambe caprine.
Sono a riposo, ma ancora per poco, temo.
Hai capito il Fauno?
Ti fa confessare i peccatacci ubriacandoti con un vino di dubbia provenienza.
Io non ci tengo ad assaggiarlo.
Così corro via.
E salgo sull’autobus.
Guarda un po’.
C’è lo stesso conducente di prima.
È stato fin troppo a gentile, a non svegliarmi, quando mi sono addormentata saltando così una gita al fiume alla quale non tenevo troppo.
Quando salgo, unica passeggera come all’andata, mentre mi fa il biglietto mi rivolge un’occhiata incuriosita.
Quasi fossi una scampata al potere del Fauno.
- Bene - lo sento dire fra sé.

Alexandra Fischer

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