martedì 19 agosto 2014

Lo scambio

Mi trovavo da pochi giorni a Montevitoli, il paese da cui proveniva la mia famiglia. Mancavo da molti anni e tutto aveva il sapore dell’ infanzia vissuta in quei luoghi. Nella piazza principale non era rimasto neanche un segmento d’ombra e mi ero rifugiato sotto il portico del municipio. Fissavo il campanile riparando gli occhi dal sole, per di imprimere nella memoria i contorni di quell’edificio pieno di fascino. Non aveva niente di speciale, eppure ne ero attratto.
A quell’ora non c’era nessuno in giro e il paese sarebbe rimasto deserto da mezzogiorno fino al tramonto. Le frange di plastica scacciamosche tentennavano mosse dal vento torrido e sbattevano contro le porte chiuse.
Quando tornavo a Montevitoli non potevo fare a meno di indossare una camicia bianca e una giacca nera, mi sentivo a mio agio con quei panni addosso, imitando mio padre e mio nonno. Osservai la ripida scalinata della chiesa e in quel momento le campane suonarono dei rintocchi lenti e mesti.
Una donna con un velo nero sui capelli saliva i gradini, aggrappata al braccio di un uomo dagli abiti troppo grandi. Li seguiva una ragazza massiccia dai capelli neri come la notte. Si fermava ogni due gradini per prendere fiato e teneva stretta davanti a sé una borsa di pelle lucida.
Ipnotizzato da quel piccolo corteo senza gioia, avanzai sul selciato rovente, salii la scalinata e mi ritrovai nel fresco della chiesa. La porta cigolò e passò quasi un minuto prima che riuscissi a distinguere i contorni di quell’ambiente familiare. San Sebastiano, trafitto da quattro frecce, guardava in punto lontano, oltre il soffitto della chiesa. L’altare di marmo intarsiato dedicato a Santa Rita mi sembrò ancora una volta un capolavoro.
L’eco di una porta che sbatteva seguito da un colpo di tosse, arrivarono come suoni lontani, estranei alla scena che mi si presentava davanti. Di fronte all’altare, nel corridoio principale, c’era una bara senza coperchio posta su due capre di legno. Le tre persone che avevo seguito fin lì erano sedute sulla prima panca a destra.
Mentre il desiderio di sbirciare dentro la bara prendeva campo, fui distratto da un movimento rapido dietro una colonna. Fissai lo sguardo in quel punto, ma qualunque cosa avessi visto, non c’era più.
La donna col velo sui capelli si inginocchiò. Prese a dondolarsi e a muovere le labbra. Il rosario stretto tra le dita gialle oscillava con lei. Lo scricchiolio del legno sotto il peso delle sue ginocchia echeggiava tra le volte. L’uomo asciugò la fronte con un fazzoletto e parve sul punto di alzarsi o di cercare una posizione più comoda.
Il prete non era ancora arrivato. Feci qualche passo per avvicinarmi ed ecco di nuovo quel movimento svelto dietro la colonna. Ebbi l’impressione che qualunque cosa fosse, quel guizzo avesse un ché di vivace.
Mi incamminai verso le colonne, infastidito dal guaire delle suole a contatto con il pavimento. Quel frinire mi innervosiva. Nessuno si voltò a guardare, nessuna curiosità verso i miei spostamenti. Quando arrivai nel punto del guizzo trovai che tutto era immobile. Ed ecco che la cosa vivace si mosse di nuovo, stavolta dietro la porta della sagrestia. Aveva i riccioli. Un bambino o una bambina, forse.
Il lungo corridoio era intriso di odori di incenso e di minestra. Niente era cambiato. Quando ero bambino percorrevo quella strada per andare a indossare l’abito da chierichetto. Potevo sentire ancora il bisbiglio dei ragazzini che scambiavano le figurine di nascosto al parroco e la risata sguaiata di Giona, a cui invidiavamo le fidanzate. Venivano alla messa apposta per vederlo. Avvertii il rumore di passi sulle scale in fondo al corridoio. Ripresi a camminare.
Al piano di sopra c’era il grande pianerottolo semibuio pieno di porte chiuse. In fondo si apriva un corridoio che dava sul chiostro, seguendone la forma. Non avrei dovuto curiosare, non era permesso. Chinai la testa come per ricevere una punizione. Il parroco non voleva intrusi, ma la porta accostata davanti a me invogliava a entrare. Sentii qualcuno correre alle mie spalle, mi voltai, ma non vidi niente. Il bambino continuava a sfuggirmi.
La stanza era come me la ricordavo, Don Emilio era seduto al solito posto, tra i libri e le scartoffie, con gli occhiali sulla punta del naso. Provai a tossire, ma non reagì. Bussai alla porta e ancora nessuna reazione. ‘Dorme,’ pensai.
“Sei tornato,” disse una voce in fondo alla stanza.
La voce era quella del parroco, ma un po’ diversa, come se con l’età fosse tornato bambino.
“Bravo,” continuò, “ sei venuto a trovare la famiglia.”
La voce di Don Emilio ebbe un moto di incertezza, mi sembrò che avesse bisogno di tempo per trovare le parole giuste. Poi disse:
“Ieri dovevo andarmene io, ma se n’è andato qualcun altro al mio posto. Hai visto la donna che sta giù? C’è stato un errore, a volte succede. Sono venuti a rimediare sai? Hanno mandato qualcuno, l’ hai visto?”.
Non capivo il senso di quelle parole e rimasi in silenzio in attesa di un’illuminazione. Non ci fu il tempo di parlare, accadde tutto in fretta. Urla di sgomento arrivarono dal piano di sotto sconquassando l’immobilità di quel momento. Mi precipitai verso la chiesa e quello che vidi mi parve un sogno. Una donna con i capelli raccolti e l’abito nero stava seduta nella bara guardando dritta davanti a sé, mentre il trio che avevo seguito fino in chiesa gridava e correva senza andare in un luogo preciso.
I piedi iniziarono a correre per tornare indietro fino alla stanza di Don Emilio, volevo avvertirlo, era forte il bisogno di gridare al miracolo davanti a un ministro di Dio e volevo avere delle conferme su quanto avevo visto. Si aprivano infinite possibilità sul senso della vita e sulla morte, a quel punto. Arrivato nella sua stanza non trovai ciò che mi aspettavo. Don Emilio era sul pavimento, sdraiato sulla schiena. Aveva la bocca aperta, ma mi fu subito chiaro che non avrebbe mai più parlato. Sul suo petto era seduto un bambino dai riccioli biondi e il viso bianco. Il bambino si alzò e venne incontro a me correndo, ma mi schivò sparendo nel pianerottolo.
Fu così che avvenne lo scambio.

Elisa Minì

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