Mi trovavo da pochi giorni a Montevitoli, il paese da cui
proveniva la mia famiglia. Mancavo da molti anni e tutto aveva il sapore dell’
infanzia vissuta in quei luoghi. Nella piazza principale non era rimasto
neanche un segmento d’ombra e mi ero rifugiato sotto il portico del municipio.
Fissavo il campanile riparando gli occhi dal sole, per di imprimere nella
memoria i contorni di quell’edificio pieno di fascino. Non aveva niente di
speciale, eppure ne ero attratto.
A quell’ora non c’era nessuno in giro e il paese sarebbe
rimasto deserto da mezzogiorno fino al tramonto. Le frange di plastica
scacciamosche tentennavano mosse dal vento torrido e sbattevano contro le porte
chiuse.
Quando tornavo a Montevitoli non potevo fare a meno di
indossare una camicia bianca e una giacca nera, mi sentivo a mio agio con quei
panni addosso, imitando mio padre e mio nonno. Osservai la ripida scalinata
della chiesa e in quel momento le campane suonarono dei rintocchi lenti e
mesti.
Una donna con un velo nero sui capelli
saliva i gradini, aggrappata al braccio di un uomo dagli abiti troppo grandi.
Li seguiva una ragazza massiccia dai capelli neri come la notte. Si fermava
ogni due gradini per prendere fiato e teneva stretta davanti a sé una borsa di
pelle lucida.
Ipnotizzato da quel piccolo
corteo senza gioia, avanzai sul selciato rovente, salii la scalinata e mi
ritrovai nel fresco della chiesa. La porta cigolò e passò quasi un minuto prima
che riuscissi a distinguere i contorni di quell’ambiente familiare. San Sebastiano,
trafitto da quattro frecce, guardava in punto lontano, oltre il soffitto della
chiesa. L’altare di marmo intarsiato dedicato a Santa Rita mi sembrò ancora una
volta un capolavoro.
L’eco di una porta che sbatteva
seguito da un colpo di tosse, arrivarono come suoni lontani, estranei alla
scena che mi si presentava davanti. Di fronte all’altare, nel corridoio
principale, c’era una bara senza coperchio posta su due capre di legno. Le tre
persone che avevo seguito fin lì erano sedute sulla prima panca a destra.
Mentre il desiderio di sbirciare
dentro la bara prendeva campo, fui distratto da un movimento rapido dietro una
colonna. Fissai lo sguardo in quel punto, ma qualunque cosa avessi visto, non
c’era più.
La donna col velo sui capelli si
inginocchiò. Prese a dondolarsi e a muovere le labbra. Il rosario stretto tra
le dita gialle oscillava con lei. Lo scricchiolio del legno sotto il peso delle
sue ginocchia echeggiava tra le volte. L’uomo asciugò la fronte con un
fazzoletto e parve sul punto di alzarsi o di cercare una posizione più comoda.
Il prete non era ancora arrivato.
Feci qualche passo per avvicinarmi ed ecco di nuovo quel movimento svelto
dietro la colonna. Ebbi l’impressione che qualunque cosa fosse, quel guizzo
avesse un ché di vivace.
Mi incamminai verso le colonne,
infastidito dal guaire delle suole a contatto con il pavimento. Quel frinire mi
innervosiva. Nessuno si voltò a guardare, nessuna curiosità verso i miei
spostamenti. Quando arrivai nel punto del guizzo trovai che tutto era immobile.
Ed ecco che la cosa vivace si mosse di nuovo, stavolta dietro la porta della
sagrestia. Aveva i riccioli. Un bambino o una bambina, forse.
Il lungo corridoio era intriso di
odori di incenso e di minestra. Niente era cambiato. Quando ero bambino
percorrevo quella strada per andare a indossare l’abito da chierichetto. Potevo
sentire ancora il bisbiglio dei ragazzini che scambiavano le figurine di
nascosto al parroco e la risata sguaiata di Giona, a cui invidiavamo le
fidanzate. Venivano alla messa apposta per vederlo. Avvertii il rumore di passi
sulle scale in fondo al corridoio. Ripresi a camminare.
Al piano di sopra c’era il grande
pianerottolo semibuio pieno di porte chiuse. In fondo si apriva un corridoio
che dava sul chiostro, seguendone la forma. Non avrei dovuto curiosare, non era
permesso. Chinai la testa come per ricevere una punizione. Il parroco non
voleva intrusi, ma la porta accostata davanti a me invogliava a entrare. Sentii
qualcuno correre alle mie spalle, mi voltai, ma non vidi niente. Il bambino
continuava a sfuggirmi.
La stanza era come me la
ricordavo, Don Emilio era seduto al solito posto, tra i libri e le scartoffie,
con gli occhiali sulla punta del naso. Provai a tossire, ma non reagì. Bussai
alla porta e ancora nessuna reazione. ‘Dorme,’ pensai.
“Sei tornato,” disse una voce in
fondo alla stanza.
La voce era quella del parroco,
ma un po’ diversa, come se con l’età fosse tornato bambino.
“Bravo,” continuò, “ sei venuto a
trovare la famiglia.”
La voce di Don Emilio ebbe un
moto di incertezza, mi sembrò che avesse bisogno di tempo per trovare le parole
giuste. Poi disse:
“Ieri dovevo andarmene io, ma se
n’è andato qualcun altro al mio posto. Hai visto la donna che sta giù? C’è
stato un errore, a volte succede. Sono venuti a rimediare sai? Hanno mandato
qualcuno, l’ hai visto?”.
Non capivo il senso di quelle
parole e rimasi in silenzio in attesa di un’illuminazione. Non ci fu il tempo
di parlare, accadde tutto in fretta. Urla di sgomento arrivarono dal piano di
sotto sconquassando l’immobilità di quel momento. Mi precipitai verso la chiesa
e quello che vidi mi parve un sogno. Una donna con i capelli raccolti e l’abito
nero stava seduta nella bara guardando dritta davanti a sé, mentre il trio che
avevo seguito fino in chiesa gridava e correva senza andare in un luogo
preciso.
I piedi iniziarono a correre per
tornare indietro fino alla stanza di Don Emilio, volevo avvertirlo, era forte
il bisogno di gridare al miracolo davanti a un ministro di Dio e volevo avere
delle conferme su quanto avevo visto. Si aprivano infinite possibilità sul
senso della vita e sulla morte, a quel punto. Arrivato nella sua stanza non
trovai ciò che mi aspettavo. Don Emilio era sul pavimento, sdraiato sulla
schiena. Aveva la bocca aperta, ma mi fu subito chiaro che non avrebbe mai più
parlato. Sul suo petto era seduto un bambino dai riccioli biondi e il viso
bianco. Il bambino si alzò e venne incontro a me correndo, ma mi schivò
sparendo nel pianerottolo.
Fu così
che avvenne lo scambio.
Elisa Minì
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