martedì 12 agosto 2014

Intervista impossibile a Vivian Maier

Cosa ha scelto di fotografare e perché?

Ho fotografato il mondo.  
Vedere guardare fermare sulla carta. Documentare ? In minima parte, ma c’è anche altro che non so. Vedo quello che forse non vedrei se non guardassi attraverso un obiettivo.  
Per un certo periodo  avrei voluto mostrare agli altri le  mie visioni. Sono stata tentata, 
poi ho capito che  sarebbe stata dispersione. Quello che vedevo  era mio, non volevo approvazione né disapprovazione.  Non tutti vediamo le stesse cose, nello stesso modo, nello stesso momento.
Mi son chiesta:” Ma credi di esser Dio con quel tuo fermare la vita in un eterno visibile presente,  annullare il tempo,  il cambiamento, persino la morte? “Fotografo da 30 anni e molte persone non ci sono più, molti luoghi sono stati distrutti o si sono trasformati eppure, pensandoci, ho capito che faccio anche di più. Non solo fermo la realtà, la scelgo. Vago per sceglierla: più  vedo, più chances ho di cogliere il significativo. Riempio qualcosa di me: nutro il mio senso del bello. Ho una ricompensa emotiva, è come vedere un quadro o un film. 

Perché non ha sviluppato  o fatto sviluppare tutte le sue foto?

Mancanza di tempo e di denaro. Mi consolo dicendomi che non svilupperò  tutte le foto che faccio così come non vedrò tutti i disegni che potrei vedere o i documentari o le opere teatrali. 
Molti scatti li ricordo anche se non li ho ri-visti dopo  sulla carta: quella luce, quel taglio, quel viso si sono inabissati dentro di me ma ondeggiano laggiù in fondo,  illuminati da  una luce tenue, come in una camera oscura.  
I rotolini, anche quelli che non ho sviluppato,  sono un diario lungo decenni. Tra scegliere i migliori e cercare altro ancora, ho preferito la seconda possibilità. La mia bramosia di non perder tempo mi ha impedito di scegliere: ho allargato la mia visione del mondo. Mi son detta :”Se avessi scritto un diario quotidiano certo non avrei  tempo di rileggerlo tutto. L’importante è averla vissuta la vita.”
 Io l’ho anche descritta. Una  foto è un racconto,  forse un possibile romanzo. 

 Quale è la sua foto preferita?

Faccio tante foto e non mi affeziono a  nessuna. E’ un buon metodo, valido nella vita anche per le persone.  Ho imparato dal mio lavoro con i bambini a non attaccarmi troppo. Crescono, si distaccano, se ne vanno. A volte resta l’affetto. A volte. Del resto seguendoli,  crescendoli , impari a curare tutti. I bambini però sono speciali,  li fotografo sempre. Sono empatici e capiscono   quello   che c’è da capire. Si mostrano con semplicità, vivono nel presente. Mi fanno venire in mente quello che dice un insegnante in una commedia. -Passate il testimone… Prendetelo, tenetelo tra le mani, e passatelo. Non per me, non per voi, ma per qualcuno, chissà dove, un giorno…Passate il testimone.-  (Da Alan Bennet-Gli studenti di storia). Sono d’accordo.  Chi sa stare coi giovani non può che  pensare questo.

C’è un genere di foto che preferisce?

No. Amo  ritrarre i bambini , comunque è la varietà quello che cerco, quello di cui ho bisogno.
Ho visto sopratutto gli opposti: i ricchi e i poveri, i felici e gli infelici, i brutti e i belli,  tutte le interazioni umane che  sono sotto i nostri occhi. Spesso non ne siamo consapevoli, a volte  le vedo per la prima volta anch’io nel momento in cui scatto. Non preferisco l’una o l’altra come non si sceglie di respirare o meno. Scatto. Non ragiono, scatto. 
Se mi muovo, trovo.

 Mi viene in mente una frase di Wittgenstein:”Il mondo è tutto ciò che accade, tutto ciò che si può far accadere.” Con un click, aggiungerei io.

Scatta diverse volte per trovare  il momento giusto?

Raramente scatto due volte. Sono come un cane da caccia. A volte mi fermo, ho come un presagio. Accadrà qualcosa: si disporrà tutto in  modo perfetto. Lo prevedo. 
Quella signora si volterà indietro. Voilà.  
Quelli che sono stati ritratti non mi chiedono mai nulla. Ho solo afferrato qualcosa che era sotto gli occhi di tutti. 

Ma chi è lei? Come si descriverebbe? 

Sorrido poco. Non sono malinconica, sono silenziosa, è diverso, e riservata. 
Parlo di quel che mi attrae solo se mi capita un buon interlocutore, quindi molto di rado. 
Non mi interessa sapere chi sono anche se a volte mi incuriosisco. Vedo un viso semplice, occhi attenti, scarpe comode, spesso un cappello per proteggermi dal maltempo. 
Non ho la presunzione di capire, voglio intuire e afferrare.
Non ho amici strettissimi ma ho conosciuto tanta gente. Le famiglie dei bambini che accudivo, la gente che incontravo e con la quale scambiavo qualche parola sono stati quelli ai quali ho comunicato le mie idee sul mondo. Ad ogni modo la conoscenza non sempre è vicendevole: non ho quasi mai parlato di foto con gli altri. Semplice dimostrazione che non sempre parliamo di quello che ci interessa davvero.  
Mi si può conoscere  vedendo quello che ho guardato. Si vede il  mio mondo attraverso le mie foto, così come un pittore lo si conosce da quello che ha dipinto, da come  ha visto quello che lo circonda. Voglio avere una mia visione, la cerco. Il mondo è un luogo  misterioso, da guardare accuratamente. Non ho cercato di imporre la mia visione, tutt’al più l’ho regalata.
La Dickinson -gli esempi vanno scelti sempre “alti”- non chiedeva se una sua poesia era bella, la regalava o la spediva. L’aveva scritta e riscritta, limata e curata, poi lasciata in bella copia in un quaderno. Ci vuole coraggio a non aver aspettative. Questo non diminuisce il valore di quello che si fa, anzi, forse, misteriosamente, lo aumenta, non so in quale modo.

Alida Pellegrini (testo)
(Immagine: autoritratto di Vivian Maier)

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