Camminiamo
lungo la riva, tu ed io. È
una mattina di giugno, la spiaggia è quasi completamente deserta,
fatta eccezione per qualche cacciatore di arselle che a volte
interrompe il suo lentissimo setacciare la sabbia per osservare il
profilo della costa, in cerca della motovedetta della capitaneria. La
sua tensione non ci appartiene, è soltanto sua. Noi siamo già
lontani, già passati oltre, nessuna preoccupazione di ambito
giudiziario ci opprime.
Camminiamo
lungo la spiaggia in una mattina di giugno ed è ancora presto, in
questa spiaggia lunghissima che sembra non finire. Andiamo verso sud.
Alla nostra sinistra si apre una grande pineta marittima, là dove un
tempo sorgeva il villaggio Valtur che poi è fallito. Vi è rimasta
una zona enorme dove non c'è niente, dove si dice stiano costruendo
qualcosa, ma poi puntualmente, ogni estate che torniamo, troviamo
tutto come l'avevamo lasciato, solo più selvaggio ancora, con più
uccelli e più animali che in quella pineta trovano rifugio.
Camminiamo
lungo la costa in direzione sud e alla sinistra si apre questa
foresta immensa. Non ci spaventa e non ci riguarda la vita che si
sviluppa dentro quella riserva naturale; non ci appartiene la
preoccupazione o il pensiero di doverla attraversare per cercare
dell'acqua potabile o cose del genere. Continuiamo la nostra
passeggiata tranquillamente, con la pineta alla sinistra e il mare
piatto alla destra, e quasi nessuna persona intorno e quasi nessun
rumore, come in una visione, o in un quadro.
A
volte ti guardo, di lato. Tu cammini in silenzio, hai addosso una
maglietta per non scottarti, il cappello di paglia che abbiamo
comprato a Siviglia. A volte ti guardo camminare, osservo il tuo
profilo e allora mi guardi di rimando e dici: che giornata
bellissima, cosa potrebbe mai capitarci? Cosa importa di tutto il
resto, delle nostre vite lontano da qui, dei nostri lavori e della
città lontanissima, delle relazioni umane così complicate? Io ti
guardo e penso che sei nel fiore degli anni, che sono fortunato a
condividere con te questo tempo e che ti amo.
I
cercatori di arselle continuano a passare i loro retini là dove si
infrangono le onde, se solo vi fossero onde. Hanno questi setacci che
trascinano con la forza dei corpi, hanno capelli stinti per il sole e
la salsedine, hanno a volte delle mogli che attendono sulla spiaggia,
ma solo i meno professionali, mentre gli altri, che sono la
maggioranza, stanno là da soli e nessuna donna li attende sulla
spiaggia, sembra impossibile perfino immaginare che qualcuno possa
aspettarli a casa, perché appaiono come l'incarnazione stessa della
solitudine.
Ci
fermiamo a guardare uno di quei cacciatori-raccoglitori, ma senza
dare nell'occhio, che non lo vogliamo disturbare. Sappiamo bene che
quella pratica è illegale, che rischia multe fino a mille euro da
parte della capitaneria di porto e non vogliamo che si preoccupi
inutilmente pensando che siamo degli scocciatori, che abbiamo
intenzione di denunciarlo. Avrà i suoi problemi, pensiamo, una
famiglia lontana a cui manda dei soldi, avrà pur bisogno di qualcosa
per vivere e allora meglio cercare arselle piuttosto che drogarsi o
rubare. Abbiamo iniziato a fare discorsi da adulti, quando è
successo?
I
pensieri e i suoni sono attutiti. Io ti guardo di lato e penso che
non sono mai stato così bene con te come in questo periodo. È
un discorso che ti ho già fatto altre volte, in questi ultimi tempi,
ma di fronte a queste parole, hai un atteggiamento obliquo: ti piace
e non ti piace. Mi dici: si, ma che vuol dire? Si stava forse male
uno, due anni fa? Quando si viveva in Spagna, o a Malta, stavamo
forse male allora? Io ti guardo e dico, no, davvero, forse sono io
che mi sento meglio, non so come spiegarlo. Te non ne vuoi sapere,
non che ci sia molto da dire in effetti, ma ti sembra che la mia
narrazione, così la chiami, sia lievemente ingiusta verso i nostri
noi del passato, che pure hanno camminato su altre spiagge come
quella, in altri giungi delle nostre vite. Hai ragione, forse sono
ingiusto, penso dentro di me, ma le cose sono cambiate tanto. Ne è
conferma questo camminare verso quel paese che non abbiamo raggiunto
mai, in altre passeggiate simili a questa, seppur con altri pensieri
in testa, con differenti preoccupazioni e gioie ad accompagnarci e
altri cercatori di arselle simili a questi e quella stessa pineta,
intorno a noi.
Continuiamo
a camminare, con il nostro ombrellone ormai molto lontano, poche
impronte altrui sull'arenile e sempre meno cercatori d'arselle. Non
succede niente. È una
mattina di giugno assoluta, non sta succedendo niente e sembra, al
contempo, che non sia mai
accaduto e mai accadrà niente. Andiamo in direzione di quel paese
sul mare che sarà lontano dieci chilometri almeno, possiamo
intravedere la torre di un campanile, o per lo meno ci sembra di
vederlo. Non abbiamo nessuna intenzione di raggiungerlo, perché
dovremmo? Camminiamo semplicemente in quella direzione, per il
piacere di fare due passi sulla spiaggia, di stare insieme, da soli,
in una mattina di giugno, di essere ancora tu ed io dopo tutte queste
stratificazioni, che fanno di noi un noi, un noi specifico.
Camminiamo
sulla spiaggia quando io ti domando qualcosa, come se pensassi ad
alta voce. Ti chiedo da cosa dipende il fatto che a un certo punto si
decide di tornare indietro, e non dico –è ovvio– la ragione
generica che ci spinge a farlo, la noia o un po' di fame o la
stanchezza o il caldo. Non mi riferisco a queste motivazioni che sono
tutte senz'altro vere e la causa del tornare. Parlo nello specifico:
di cosa ci fa tornare indietro in un certo punto, in un dato momento,
invece che in uno precedente o in uno successivo. Vorrei setacciare
quel momento e guardarlo nella sua singolarità. Isolarlo come un
albero all'interno di una foresta. Il discorso continua, anche se è
già finito, e insisto a domandarti cosa è che scatta, se poi
qualcosa scatta, dal momento che non c'è nessun elemento di
discontinuità, nessun punto raggiunto o da raggiungere, niente di
niente nel contesto che ci porta a dire: fino a qui e non di più.
Allora
ci guardiamo nella maniera che avevamo a volte, in quel modo di
guardarci specifico che avevamo un tempo, ai tempi dell'Andalusia o
dell'isola d'Elba, mi sembra di ricordare. Ci guardiamo in quel modo
e diciamo: andiamo ancora avanti, ancora un poco. Per questo
continuiamo a camminare sulla spiaggia, ma è chiaro che poi dovremo
tornare indietro, a prescindere dai discorsi.
Forse
questa volta raggiungeremo il paese lontano e una volta laggiù
prenderemo un autobus per tornare, qualcosa troveremo. Chiederemo un
passaggio a qualcuno che torna verso nord, e già l'ombrellone e le
nostre cose appaiono lontanissime, anche nel pensiero, e il sole è
alto nel cielo e comincia ad essere molto caldo. Sembra quasi di
sentire un rumore di campane. Provengono forse dal villaggio laggiù
in fondo, che continua a essere lontanissimo, ma di cui adesso
possiamo scorgere nitidamente il campanile. Alla nostra sinistra
l'enorme pineta, al cui interno stanno i ruderi dell'antico villaggio
Valtur, mentre alla destra il mare calmo e alcuni cercatori di
arselle, solitari.
Ci
guardiamo l'un l'altra e pensiamo che sarebbe certo l'ora di tornare
indietro, ma non sappiamo bene come impostare la frase, che dire
adesso quelle parole assumerebbe forse il valore di metafora, o di
simbolo. Non vorremmo davvero dire qualcosa del genere, terminare la
nostra passeggiata proprio adesso sarebbe ingiusto. Così continuiamo
a camminare verso sud, come se niente fosse. Il mare calmo sulla
destra, l'enorme pineta alla sinistra.
Simone Lisi
Nessun commento:
Posta un commento