martedì 20 maggio 2014

Galoppo

Sono un cavallo. Cioè, non so se sono io. Nei sogni vedo tipo in un film. Come si dice... in terza persona. Però lo so che sono io. Sono in una valle circondata dalle colline. Sulle colline ci sono gli alberi. C'è il sole, ma non fa caldo. Si sta bene. Ci sono dei ruderi nella valle, ma intorno non si vede nessuno. Scalcio e sbuffo, parto al galoppo. Poi mi sveglio. In casa mia c'è freddo, il riscaldamento me lo hanno tagliato. Mi hanno licenziato, ho finito i soldi. Non tutti. Mi sono tenuto l’ultimo pezzo da cinquanta. Me lo ha prestato Dario. Senza fare storie, da vero amico. Mi sciacquo la faccia con l'acqua, fredda anche quella, e metto un po' di caffè solubile in un bicchiere. Lo bevo freddo. È tutto freddo. Fuori piove. Oggi c'è l'assemblea. Cioè, non è proprio un'assemblea. I miei colleghi non hanno detto nulla quando mi hanno licenziato. Ci siamo solo io e i sindacalisti. E quella faccia di cazzo. Ce l'ha con me che sembra gli abbia chiavato la moglie. Finisco il caffè freddo, mi vesto. Metto l'impermeabile e esco. Chiudo bene, anche se non c'è nulla da rubare. Alla fermata del bus, sotto la pensilina, c'è una vecchia con dei sacchetti. Mi guarda come se fossi un mostro. Cazzo guardi, vorrei dirle. Ma lascio perdere, sono stanco. Arriva il bus. Ora piove più forte. Sul bus trovo anche posto a sedere. Una fortuna, penso. Poi mi viene da ridere. Seduto davanti a me c'è un negro. A me i negri non piacciono mica tanto. Ma questo è vecchio, silenzioso. Ha le treccine come quel cantante che ascoltano i drogati, solo che questo le ha tutte grigie. Scende prima di me. Prima di scendere mi guarda e sorride. Vai tranquillo, mi dice. Io non rispondo, sono tranquillo. Arrivo alla fermata in anticipo. Cammino fino al negozio, ma ancora i sindacalisti non sono arrivati, faccio due passi. Ora pioviggina, ma non smette. Di là dalla piazza c'è un arrotino. Vende anche i coltelli. Attraverso la piazza lucida. Il commesso è un ragazzino. Forse è straniero, ma parla bene. L’arrotino è dietro, non serve i clienti. Compro un coltello, chiudibile, con quindici centimetri di lama. Un bell’attrezzo. Chi ci deve far fuori? Mi chiede il ragazzo ridendo. Rido anch’io, mentre mi infilo il coltello in tasca. Ora ho finito tutti i soldi. Esco e attraverso la piazza di nuovo. Piove ancora. I sindacalisti sono arrivati. Sono un uomo e una donna. Sono gentili, sorridono, mi fanno coraggio. Ma io sono tranquillo. Lei è pure bella. Parla con un accento strano. Mi offrono il caffè al bar, mi mostrano le loro cartellette piene di fogli. Tutti inutili. Mi hanno licenziato lo stesso. Ma loro davvero ce l’hanno messa tutta. Entriamo nel negozio. Non c’è tanta gente, è un’ora un po’ morta, subito dopo pranzo. I colleghi a malapena mi salutano. Alcuni fanno finta di non vedermi. Magari gli hanno fatto paura. Magari non gliene frega un cazzo. Ognuno per sé e Dio per tutti, diceva mia nonna. Entro dietro ai sindacalisti, che sembra vadano in guerra. Un collega li fa sedere nella stanzetta davanti alla macchina del caffè e dice che va a chiamare il direttore. Quello arriva e nemmeno mi guarda. Ha un ghigno cattivo in faccia, gli occhiali spessi. Il doppio mento gli pende da sopra al colletto. Dà la mano ai sindacalisti, sembra molto scocciato. Tanto lo sa che questo casino è inutile, ha il coltello dalla parte del manico. Il padreterno, si crede. Il padreterno del cazzo. A loro gli spiega che nessuno ce l’aveva con me, che c’è solo eccesso di personale, poco lavoro. Le solite storie. Mi aveva preso sul cazzo da subito. Trattava male tutti, ma con me era particolarmente cattivo. La bella sindacalista lo minaccia. Dice che gli bloccherà le assunzioni, si accalora, arrossisce. Parla anche di mobbing. Il direttore non fa una piega. Anzi, ora ha un mezzo sorriso. Poi fa per alzarsi, dice che deve lavorare, lui, che è responsabile di dar da mangiare ai suoi ragazzi. Così dice, i suoi ragazzi. Non ci chiamava mica così, sul lavoro. I sindacalisti salutano, dicono che non è finita, sembra che ci credano davvero. Ora siamo in piedi uno di fronte all’altro e finalmente mi guarda. Ha un bel vestito grigio. La cravatta rossa col logo del negozio. Mi porge la mano. Io la stringo, la stringo forte. Con la sinistra tiro fuori il coltello dalla tasca e faccio scattare la lama. Gliela pianto nella gola, in quel doppio mento che mi pende davanti, e do uno strattone. Il direttore cade a terra, rantola, si tiene la gola con le mani. Il sangue esce a fiotti, non credevo usciva così, me lo becco addosso. La sindacalista urla, urla fortissimo, il suo collega la porta via, mi guarda con gli occhi sgranati. Ma io mica ce l’ho con loro. Non ce l’ho più con nessuno. Il direttore non rantola più, ma ora tutti urlano. Urlano di chiamare un’ambulanza, la polizia. Uno dei miei ex colleghi si avvicina, mi dice di stare calmo. Ma che cazzo vuole questo, a malapena mi parlava quando lavoravo qui. Ridacchiava sempre. Alzo il coltello e lui scappa, vedi che eroe, penso, mi viene da sorridere. Respiro forte. Ora è proprio finita. Mi punto la lama alla gola, fa un po’ male, ma non ho paura più tanto. Ora so come si fa. Affondo e do uno strattone. Sento caldo, mi mancano le gambe, cado a terra. Diventa tutto buio. Come quando ti addormenti. Poi si schiarisce, rivedo le colline. Sulle colline ci sono gli alberi. C'è il sole, ma non fa caldo. Si sta bene. Parto al galoppo.

Filippo Rigli

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