D'altronde fa parte del dono. Un
dono per nulla ambito e ingiustamente sottovalutato dai più, che porta a dare enorme importanza a cose
comunemente considerate di scarsissimo valore e interesse. Un tempo credevo rappresentasse
una delle sfaccettature destinate a contraddistinguere una personalità
intrigante e poco scontata. Ora sono più dell'idea che questa predisposizione
vada, invece, annoverata tra i caratteri peculiari che mi renderanno quella
donna di età indefinita e atteggiamenti eccentrici alla quale tendo a
somigliare di più ogni giorno che passa. L'aver indugiato quel pomeriggio su
quell’angolo mi appare, tuttavia, come una delle azioni capaci di cambiare il
sapore delle cose e provo una sincera ammirazione per la mia assoluta
indifferenza e inettitudine per ciò che di significativo il quotidiano possa
offrire. Eppure, non mi fermai e proseguii lasciandolo di lato alla mia strada,
con tutto quello strano fascino che, in maniera indefinita, già esercitava su
di me. Come talvolta accade era, infatti, una di quelle circostanze in cui
cercavo di piegarmi alle bieche regole del mondo e, travestita da persona che
cercava un'occupazione decorosa e socialmente accettabile, mi apprestavo a
suonare un campanello poco più sotto. Se il destino avesse desiderato un
approfondimento da parte mia, me ne avrebbe concessa l'occasione. Così cominciò
il mio lavoro nello stabile confinante e, rassegnata, mi convinsi a dover per
forza indagare le origini di quel luogo.
Per rispetto al comune buon senso
cominciai la mia ricerca dalla cosa che meno mi aveva colpito, ma che ben
sapevo sarebbe stato l'elemento privilegiato da qualunque altro individuo
impegnato nel tentativo di riprendere le fila della misteriosa vicenda. Si
noti, infatti, che io tengo in gran considerazione il senso e l'agire comuni e,
laddove non mi sia assolutamente impedito da una sorta di coerenza, mi mostro
piuttosto accondiscende rispetto al prossimo e alle sue esigenze.
Lessi la grande targa in pietra e
scoprii che essa era stata piazzata ad imperituro ricordo di una strage
compiuta. Strano come si divenga insensibili alle stragi vivendo in un Paese
ricoperto di targhe, credo non mi sarei mai soffermata su tale iscrizione se
essa non mi fosse apparsa fin dalla prima occhiata così significativa e
importante per qualcuno la cui dedizione a quel posto era tanto evidente da
rendere quest'ultimo di un valore inestimabile. Vi si rammentavano degli
alquanto sfortunati “campioni in Cristo”, dei quali si era perso anche l'anno
in cui erano stati strappati a quello stesso sasso da una violenza che,
consegnata all'eternità, perdeva connotazione fisica e, condannata, veniva resa
innocua, ammansita.
Ben poco successo avrebbe
ottenuto su di me e su chiunque altro si fosse trovato a passarle davanti, se
qualcuno non avesse deciso con tanta risolutezza di volerne perpetrare il
ricordo. Tale determinazione risultava avere, inoltre, un che di nobile tanto
si allontanava da qualunque forma di stereotipato cordoglio.
Niente corone di alloro, né fiori
variopinti. Assenza totale di lisi ex-voto da pellegrinaggio new-age. La stessa
roccia, che a quella strage aveva fatto da cornice, risultava viva e in qualche
modo gaia dell'aver saputo prendersi gioco del tempo, superando l'oblio e
l'abbandono ai quali sarebbe stata certamente destinata.
Piccoli pezzi di vetro colorato,
sassi dalla forma inconsueta, tappi di bottiglie smarrite, adornavano l'area tutta intorno alla targa;
piante grasse in precario equilibrio su sottovasi biscottati dal sole insieme a
qualche posata le rendevano omaggio.
Persino una bottiglietta di vetro
marrone, che l'assenza dell'etichetta rendeva libera dal suo passato contenuto,
come se essa avesse ragione d'esistere perché bottiglia e non mero contenitore,
osservava dall'alto questo strano altarino, fiera, forse per la posizione
sopraelevata, forse perché soddisfatta di aver scampato un futuro
multimateriale per un ruolo da protagonista in questo ameno teatro della
memoria.
Tutti questi preziosissimi
oggetti di alcun valore acquisivano in qualche modo importanza proprio dal loro
essere stati collocati volutamente in un luogo ad essi non destinato e
ribadivano il loro status con l'immutabilità della loro posizione rispetto a
qualsivoglia ordine e decoro. Stavano lì superbi, eppure non abbandonati, bensì
accuditi da una mano che li aveva scelti, innalzati e continuava a strapparli
ad un'eterna scontatezza.
Presto la mia mente cominciò a
ricercare quell'angolo anche quando le si trovava lontana e mi capitava di
ritornaci nel tentativo di trovare la chiave giusta per fare un passo in più,
arricchire di qualche linea il ritratto dell'autore di tanta devozione.
Ero perciò solita scrutare con
attenzione ogni persona si trovasse a passare in prossimità della targa, sicura
di poter riconoscere, prima o poi, dietro la scia di naftalina lasciata da un
montone démodé o fra le mani nodose di qualche signora con lo chignon, il tanto
agognato artefice di quell'inno al sentimento e al ricordo.
Non ero, però, affatto certa che
esistesse una reale connessione tra i fatti ricordati dal monumento e l'atto
della cura dello stesso e mi sembrava plausibile ipotizzare altri legami tra
quel luogo e il suo misterioso custode. Un giorno volli disperatamente
riconoscerlo in un uomo che di prima mattina scendeva la strada parlando tra sé
e sé e che non aveva trovato opportuno interrompere quel dialogo, sicuramente
di una certa importanza, a causa della mia inopportuna presenza. Ma anch'egli
continuò diritto e, sebbene avessi custodito la speranza che una volta sgombrato
il campo, vi fosse ritornato, qualcosa mi diceva di essere ancora molto lontana
dallo scioglimento dell'enigma.
Mi convinsi perciò a cercare
aiuto.
Naturalmente io non amo chiedere
aiuto, trovo tolga molti dei riflettori e porti inevitabilmente alla ribalta
personaggi secondari che potrebbero inopportunamente scalzarmi il ruolo di
protagonista indiscussa di avventure ineffabili e già sufficientemente ignorate
per accontentarsi di dividerne merito e fama.
In ogni caso la questione era
oramai divenuta di primaria importanza e perciò scelsi accuratamente la persona
alla quale rivolgermi, in modo da ridurre al minimo la catena degli informatori
che mi pareva potessero solo mettere a repentaglio la discrezione dovuta alla
vicenda.
Ritenni che la cuoca dell'Istituto
presso il quale lavoravo fosse la persona più adatta. La mia domanda non la
colpì, forse le parve più strana l'importanza che sembrava ricoprire la cosa
per me. Senza troppi preamboli mi spiegò che, con ogni probabilità, si trattava
di una signora canadese che soggiornava nelle vicinanze da qualche anno e che
si era ormai conquistata un posto d'onore tra i personaggi caratteristici del
luogo.
Trattandosi di un borgo molto
piccolo, la suddetta signora sembrava davvero poter vantare una posizione di spicco
nelle vicende della comunità, anche se la fama che in qualche modo la
circondava non appariva del tutto priva di contraddizioni.
La sua militanza nel coro della chiesa,
il multiforme impegno culturale, dalla pesca di beneficenza, al torneo di
scacchi, l'assidua frequentazione della Casa del Popolo, non erano riusciti a
nascondere che qualcosa nella sua personalità, pur se accettato, rimaneva
incompreso.
Per esempio, la dedizione mostrata
nella cura di molte delle aiuole del posto destava qualche perplessità in
primis tra i trapiantati arbusti, i quali apparivano un po' a disagio in quella
loro nuova connotazione di verde urbano.
Era solita, inoltre, distribuire
attenzioni caritatevoli nel ricco vicinato il quale custodiva qualche dubbio
sul suo operare da dama industriosa e, tuttavia, avrebbe preferito campare
delle sue zuppe al rabarbaro tutto l'anno, piuttosto che contraddirla.
Avevo dunque trovato il mio
custode e la ricerca poteva dirsi conclusa.
Il pizzicore allo stomaco che da
tempo sufficiente accompagnava i miei personali irrisolti, però, non aveva
trovato ancora sollievo, nonostante la ricostruzione del puzzle.
Aspettai qualche giorno, convinta
che presto una nuova occupazione avrebbe assorbito le mie giornate. Poi,
puntualmente, tornai a cercare il modo per poter scorgere ciò che avevo la
sensazione mi sfuggisse.
Fu così che, inaspettatamente, l’occasione
arrivò: una sorta di serata di beneficenza nella Villa di fronte. Indiscrezioni
culinarie mi avevano portato alla convinzione che la misteriosa canadese
sarebbe stata una degli invitati d'onore al prestigioso appuntamento.
Inutile sottolineare come di
fatto avessi accolto come un chiaro segno divino l'imprevedibile concatenazione
degli ultimi eventi, pregai che nessuna tragedia mi trattenesse dal potervi
partecipare. Nonostante la mia predisposizione al catastrofismo, la sera del
ricevimento arrivò e novella cenerentola mi preparai a fare la mia entrata a
palazzo. Avevo optato per un vestito nero e non solo nel rispetto della regola
aurea per cui “il nero sfina in ogni caso”, e nemmeno perché esso regnava
indiscusso nel mio modesto guardaroba, bensì con il premeditato auspicio di
passare il più possibile inosservata tra tutte quelle facce che già immaginavo
conoscersi accuratamente e vicendevolmente da qualche secolo. Anche la mia
missione temevo potesse comportare qualche criticità: voler ricostruire i
meandri psichici dell'eroina di cantone, che con grande probabilità avrebbero
messo in luce una certa eccentricità mentale, non mi sembrava proprio il
migliore dei biglietti da visita.
Quindi uscii e felice di non
dovermi preoccupare almeno del mezzo opportuno per raggiungere il luogo,
attraversai la strada e suonai il campanello.
Il cancello sì aprì e la ghiaia
presto lasciò il posto a scalini di marmo e stucchi in abbondanza.
Guardandomi intorno mi fu subito
palese che una bella divisa da cameriera sarebbe stata certamente un ben più
valido aiuto nel sentirmi meno a disagio tra i presenti che tradivano, tra un
bicchiere di prosecco e una tartina al tartufo, un po' di noia a molta
abitudine a festeggiamenti del medesimo genere. Stavo quasi per optare per una
sobria ubriacatura che mi avrebbe certamente fatto apparire più sciolta con il
prossimo, probabilmente qualche reduce della “Guerra delle due Rose”, quando la
mia attenzione fu distolta bruscamente dai calici e dal loro contenuto.
Pur non avendola mai vista e
senza che qualcuno me la indicasse, la riconobbi senza esitazione.
Più alta della media aveva i
capelli di un biondo quasi bianco che le ricadevano in ciocche ondulate,
laddove non erano fermati da qualche forcina. Il viola della casacca scivolava
morbido sopra una lunga gonna, senza incontrare eccessivi ostacoli, e poi
proseguiva giù a lucidare un paio di punte di stivale.
Una collana di semi e murrine
compiva simpatici dondolii di accompagnamento alla conversazione e due grandi
orecchini di madreperla tintinnavano, acconsentendo con enfasi alle tesi
esposte dall'interlocutore.
Mentre mi avvicinavo i suoi occhi
incrociarono i miei e serenamente sorrisero: “Però ce ne hai messo di tempo”.
Perplessa, ma non ancora abbastanza persuasa a rivelare l'evidente scambio di
persona, stavo cercando le parole adatte a temporeggiare educatamente, quando
aggiunse: “ E' solo una questione di inclinazione, in fondo”.
Poi estrasse qualcosa dalla
tasca, mi prese la mano, l'aprì e ci mise dentro un pezzo di piastrella verde e
oro.
Chinai la testa per osservarla
meglio, ne sondai i bordi imperfetti e ruvidi.
Appoggiai il bicchiere, mentre
lasciavo le luci e le danze nessuno sembrò accorgersene o darsene particolare
pena. Presto ritrovai la ghiaia e tornai a respirare nuovamente i cipressi
umidi di sera.
Chiuso il cancello, mi fermai,
cercando un attimo di concentrazione.
Quando fui certa di ricordare
dove il sole l'avrebbe illuminato meglio, mi avvicinai alla roccia e vi deposi il
prezioso dono, tra le piante grasse e i tappi di bottiglia, in bilico.
Chiara Babetto
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