martedì 31 dicembre 2013

Domani gioca in porta

1. Domani gioca in porta.
A volte questo posto è come il mare: il clima può cambiare all’improvviso. Arrivano tempeste veloci. Solo che in cella non te lo mettono mica, un barometro per questo tipo di cambiamento.
E’ vero che ci sono delle avvisaglie, dei segni che puoi cogliere, facendo attenzione.
Per esempio c’è Victor che mi si avvicina e dice la frase misteriosa: domani gioca in porta.

E’ iniziata come una partita normale.
Ma il carcere è una pentola a pressione: ci metti una cosa e non sai cosa esce.
Per esempio, entri che non sai nulla e, oplà, magia, esci che sai tutto: gli agganci, i posti.
Se quando sei fuori incontri uno con cui in galera hai avuto dei problemi, allora ti prende la paura. Anche se non vorresti fargli nulla ti tocca reagire, che nella lingua contemporanea vuol dire agire d’anticipo.
A casa non ero per nulla violento, ero il cocco del quartiere.
Però poi ti devi impegnare a essere spietato, è il codice. Ci vuole una continua applicazione.

Lo spazio per l’aria è una specie di cubo di cemento in cui è possibile muoversi. Una scatola che guarda il cielo.
In quel momento ero solo.
Victor si stacca dal gruppetto degli slavi. Se ne allontana come vincesse la forza di gravità. Eppure non si vede lo sforzo: viene verso di me tutto rilassato, lento, con aria indifferente, e parliamo un po’ di qualche cazzata.
Ha il portamento eretto, un’aria nobile e austera. I baffi espressivi.
Ma io lo vedo che c’è qualcosa che non va, ormai lo conosco: ho lavorato con suo fratello.
Il gruppetto degli slavi ci guarda, ci sorveglia, soprattutto il Cane. Lui ci fissa con quegli occhi furibondi. Victor ha paura del Cane, anche se non me l’ha detto. I suoi baffi radi fremono di turbamento. Qua non puoi mai dire che hai paura. Meglio scherzare.
Victor mi fa un sorrisetto, come per un piccolo scherzo divertente, appunto, o come per rivelare una piccola debolezza, e prima di andare via mi dice quella frase: domani gioca in porta.
Da lì ho cominciato a capire che era cominciata un’altra partita.

Il problema con gli slavi è che hanno un’altra mentalità.
Noi magrebini ci mescoliamo benissimo agli italiani. Invece gli slavi per niente.
Tanto che in quel carcere enorme avevano una sezione tutta per loro.
Però Victor era slavo e io ero suo amico, perché fuori avevo lavorato con suo fratello. Per questo mi aveva detto quella frase. Perché alla fine lo sport fa male, questa è una grande verità.

Stavamo disputando un torneo di calcio. La settimana prima avevano giocato gli slavi contro una squadra mista: magrebini e italiani.
Invece gli slavi non si mischiano con nessuno.
L’unico posto dove gli slavi entrano in contatto con gli altri è il passeggio, e soprattutto quando si gioca a calcio.
Però Hamed, uno dei nostri ragazzi era entrato male, e aveva spaccato la gamba al fratello del Cane. C’erano stati dei problemi. Era diventata una questione di regionalismo. Offese, botte. Sono stati loro a cominciare. Ma poi noi abbiamo reagito per bene.
Quando sono intervenute le guardie, appese ai loro manganelli come passeggeri alle maniglie dell’autobus, abbiamo giurato che non era successo niente, solo un incidente di gioco. Altrimenti sospendevano il torneo.
Il Cane ha detto a voce bassa che ce la faceva pagare.
Il Cane lo chiamo così perché è come uno di quei cani che fai crescere in una stanza buia, poi gli fai vedere la luce e impazziscono.
A lui è successo venendo in Italia.
Suo fratello era uno scheletro sudaticcio, alto, verde schifoso, si stropicciava sempre l’orecchio.
Invece il Cane era molto diverso, fossi il loro padre avrei dei dubbi.
Era piccolo ma grosso, grasso. Novanta chili nani di violenza. Una specie di bambino enorme. Ma dentro quel grasso ci dovevano essere dei congegni meccanici perché era molto forte. Aveva delle guance colossali, con in mezzo una bocca lunghissima, e sorrideva sempre in modo mostruoso, coi denti collegati agli occhi. Un sorriso come di soddisfazione, non si sa perché. Ma ora quel sorriso era storto, sembrava quasi stesse per piangere.

Sono salito nei miei appartamenti.
Alle 11.30 passava il porta vitto con il carrello. Il porta vitto è un detenuto anche lui, distribuisce le razioni. Ti portano il pranzo in cella, un po’ come la colazione in camera, [....... continua a leggere "Domani gioca in porta di Enzo Fileno Carabba]
solo che qua è compreso nel prezzo.
Io ero appena arrivato in quel carcere e nella mia cella c’erano altri illustri clienti, perché l’edificio aveva registrato il tutto esaurito. Tempi di alta stagione. C’era un vecchio che non mi perdeva d’occhio un secondo. Mi faceva di continuo delle domande e io rispondevo da bravo ma lui non era mai contento. Peggio che essere a scuola. Mi seguiva perfino in bagno, che comunque non era una cosa difficile visto che il bagno era a trenta centimetri e non c’erano muri. Ma insomma non mi perdeva d’occhio. Non che subisse il mio fascino carnale. Pensava che avessi qualcosa di prezioso. Per questo mi trattava bene, e anche gli altri tre della cella. Però era difficile muoversi in quel poco spazio. Se stavamo tutti in piedi in cella non c’era verso di girarsi.
La televisione era sempre accesa, col volume altissimo.
Un portentoso odore di fritto andato a male era il padrone dei nostri nasi. Cancellava tutti gli altri odori, anche dalla memoria.
C’era sempre uno che voleva la finestra aperta anche se si gelava.
Tutto era così confuso che chi sta fuori non se lo può immaginare. Non facevo nulla ma non avevo neppure il tempo di scrivere a casa.
Li abbiamo pestati bene quei cani! Disse il Vecchio che aveva saputo della partita, tutto contento.
Che frase! Doveva averla sentita alla televisione.
Di notte pensavo alle parole di Victor, ben più profonde e enigmatiche: domani gioca in porta.
Cosa aveva voluto dire? Chi era quello che giocava in porta? Giunsi alla conclusione che dovevo essere io. Tu gioca in porta, era il senso. Un consiglio strano: decisi che lo avrei seguito. Tanto nessuno ci vuole mai giocare in porta, come da bambini. In carcere si torna un po’ bambini. Anche perché per qualsiasi cosa devi obbedire alla volontà dei grandi, che qui sono le guardie. Per quanto riguarda la rieducazione non saprei, ma di sicuro ti danno l’opportunità di tornare all’infanzia.

2. La storia di Raul
In carcere è come nella vita: dipende chi trovi. A volte c’è più solidarietà dentro che fuori.
La prima volta che sono entrato in un carcere avevo una grande paura, stavo a testa bassa. Invece il mio compagno di cella mi ha portato il caffè a letto.
Però non era questo il caso. Non che i miei coinquilini facessero niente di particolare, ma un po’ mi opprimevano con le loro premure.
In carcere la notte inizia presto. Alle 21 spengono le luci. E’ vero che te le riaccendono ogni tre ore per i controlli, e questo aiuta a vincere la monotonia. Se apri l’occhio vedi la faccia dell’agente che controlla dallo sportello della porta blindata. E’ pur sempre un contatto umano.
Quando sei appena arrivato controllano che non ti suicidi.
E poi è difficile perdere qualcosa, dato che entrano spesso per perquisire e devi rimettere tutto in ordine.
Quella notte non accadde.
Ma una volta che aprii gli occhi vidi il volto di mia madre sopra di me. Ero felice, ma la povera donna era peggiorata. Poi mi resi conto che era il Vecchio che mi guardava e volle sapere ancora una volta la mia storia daccapo. Come non si fidasse. C’era qualcosa che voleva da me. E anche gli altri. Facevano finta di dormire ma sapevo che mi ascoltavano. A parte Fuad, un ragazzo asciutto e mite che sicuramente sarebbe diventato un grande calciatore. Era tutto preso da questo pensiero. In cella si allenava senza pallone, muovendo i piedi come per palleggiare o tirare. Non era un mago della conversazione.
Il Vecchio invece parlava troppo, lo innervosivano le cose più imprevedibili. A volte era come se volesse arrabbiarsi e allora coglieva i pretesti più strani e, anche se sotto sotto lo sapeva che erano falsi, si autoconvinceva e si montava al punto che i suoi scoppi di ira risultavano autentici. Per esempio faceva cadere un piatto di plastica e poi dava la colpa a un altro e allora c’era da avere paura.
Ma con me manteneva quell’atteggiamento sospeso.
Per chi avesse difficoltà di comprendonio: i coinquilini pensavano che avessi della droga nascosta in qualche anfratto del corpo. Per questo mi sorvegliavano anche quando andavo in bagno. Per questo mi trattavano bene ma erano anche un po’ minacciosi. Io comunque raccontai la mia storia. Ecco:

Vengo da un quartiere normale: cioè povero, con famiglie numerose.
L’infanzia l’ho passata a lavorare con mio padre, un ciabattino. Mi sono consumato il cervello a furia di lavorare.
Non è stata una brutta infanzia, ma non mi sono divertito molto.
Sono scappato in Francia perché i miei sogni erano altri. Lì mi hanno quasi arrestato perché mi sono trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Vivevamo in una casa abbandonata al 19° arrondisement, nella banlieu parigina. Magrebini. Ma anche gente dell’Africa centrale. Nel senso: i negri.
Sparavano troppo, il che mi ha indotto a scappare in Italia.
E’ brutta l’ignoranza. Vedendo l’Italia attraverso Canale 5, nel Magreb, mi ero fatto un’idea sbagliata. Anche perché d’estate vedevo arrivare questi ragazzi che magari erano partiti solo un anno prima senza nulla e già tornavano con la macchina piena di benzina. Una cosa straordinaria, affascinante, istruttiva.
Comunque ancora oggi la Tv italiana mi piace più di quella del mio paese.
A parte l’imbecillità di pensare che la vita vera consista nel battere sui viali, fare rapine o spacciare droga. Di solito quelli che fanno queste cose pensano invece che la vita vera sia quella del Mulino Bianco.
Io penso che magari ci potrebbe anche essere una via di mezzo. E non voglio dire fare una rapina al Mulino Bianco o spacciare biscotti.
Scappare dalla Francia è stato semplice. Sono arrivato in treno, col biglietto ma senza documenti. Non ho preso il treno che va direttamente da Nizza a Roma, ho preso un treno regionale, lì non ti controlla nessuno, controllano solo le lunghe percorrenze.
A Napoli sono andato a un mercato. Ci sono tutti questi magrebini che vendono vestiti.
Mi butto nel commercio, mi sono detto. E così ho fatto. E’ vero che in Italia la famiglia è importante. Lavoravo per una famiglia di Napoli, erano molto uniti. Avevano una fabbrica sotterranea di merce contraffatta.
Poi ho fatto il pendolare tra Napoli e Padova, sempre per la stessa famiglia.
L’ho capito a poco a poco: c’era tutto un sistema di coperture, tipo matrioske. Uno pensa di coprire una cosa invece ne copre un’altra più grande.
Improvvisamente avevo tanti soldi.
Al ristorante c’erano dei tavoli sempre vuoti, riservati, sempre pronti per loro. Anzi per noi: è stato il momento di maggior integrazione della mia vita.
Poi è successo un casino: avevano arrestato qualcuno. Allora una della famiglia, una donna un po’ vecchia che comunicava spesso con un santo napoletano gentilissimo, mi ha detto: vai via, scappa. Una brava donna. Così quella volta non mi hanno preso.
Un’altra volta sono finito in carcere per una questione. Ma quella donna non me la posso scordare.

Il Vecchio sorride comprensivo ma si capisce che degli snodi sentimentali della mia storia non gliene importa molto. E’ uno che vive nel presente, un filosofo. Vuole solo sapere se ho la roba e dove la tengo. Quando scopriranno che non ce l’ho, capace che ci restano male.

3. La principessa prigioniera
Mi sono sempre piaciute le storie in cui c’è una principessa prigioniera e l’eroe deve liberarla e poi la sposa.
Solo che qui è prigioniero anche il principe. Questo rende la storia ancora più interessante.
In questo carcere funziona così: dalle finestre degli uomini si vedono le finestre delle donne e viceversa. La persona vera e propria non la vedi bene, per colpa delle sbarre di cemento. Ma prima di tutto puoi urlare, e poi puoi sventolare dei vestiti o un lenzuolo in un modo che ha un significato. In questa maniera ci fidanziamo a distanza. E addirittura ci sono coppie che poi si sono ritrovate fuori e si sono sposate o comunque messe insieme alla maniera normale. Che resta la migliore.
In quanto a privacy, questo modo di stare insieme basato su urli e sventolamenti lascia a desiderare, perché tutti possono vedere e sentire. Comunque meglio di nulla. E poi concede spazio all’immaginazione.

Insomma mi ero messo con una ragazza italiana di venticinque anni. Lei era molto bella, la intuivo dietro le sbarre di cemento, e da lontano fare l’amore con lei era meraviglioso. A noi due non piaceva comunicare con le urla, lo facevano di rado, è difficile dire cose romantiche o dolci urlando. Più che altro ci affidavamo all’alfabeto degli sventolamenti. Questo alfabeto funziona in modo molto semplice. Uno sventolio per la A, due per la B, tre per la C e così via. E’ semplice ma anche complicato: metti che devi dire “zozzo”, o “zazzera”, ci impieghi mezzo pomeriggio. C’è gente che non fa altro tutto il giorno. Si alza, prepara il caffè e si dà alla corrispondenza. Pranza, si riposa e riprende. E così via per l’eternità. E’ una cosa molto bella, o molto brutta, non ho capito.
Io mi ero segnato l’alfabeto sul muro, accanto alla finestra, per non sbagliare. Dopo un po’ impari, ma io ero lì da poco ed ero insicuro. Non solo devi stare attento quando scrivi, ma anche quando leggi la risposta: perché uno sventolamento in più o in meno può essere cruciale.
Un’altra cosa importante è capire se la tua bella si sta rivolgendo davvero a te. Sennò magari è la bella di un altro e te parli al vento.
D’altra parte questo può succedere anche fuori.
Fatto sta che la mia donna era bellissima e io speravo proprio di incontrarla, una volta fuori, per fare tutte le cose in modo normale.
Il Vecchio sogghignava perché era invidioso. Aveva talmente interiorizzato il carcere che non credeva più nell’esistenza delle donne.

Finalmente è venuta l’occasione per incontrare Laura, sia pure a distanza. All’Auditorium del carcere c’era un incontro sui diritti dei carcerati e io e lei eravamo tra gli invitati. Infatti non è che a questi incontri possano andare tutti i carcerati: siamo migliaia. Invitano un gruppetto, tra quelli con l’aria meno moribonda, per fare bella figura coi giornalisti. E anzi, la settimana che precede l’incontro ti danno anche del cibo meno schifoso.
Di solito questi incontri si tengono sotto elezioni. Viene qualche politico che improvvisamente si infiamma per i nostri diritti calpestati, i giornali lo scrivono, il direttore del carcere ribatte che stiamo benissimo ma grazie a lui staremo anche meglio. E tutto finisce lì. Fino alla prossima puntata. In fondo non è male, sai cosa aspettarti: è come un telefilm. E’ rassicurante.
E poi appunto questi incontri all’Auditorium, oltre a essere divertenti, sono le uniche occasioni di incontro col gentil sesso.
Invece c’è chi, anche tra di noi, li prende terribilmente sul serio: annuncia in pubblico che si suiciderà o cose del genere. Questo tipo di esternazione teatrale è comprensibile ma non fa parte del mio carattere. Anche perché poi in un modo o nell’altro, non subito, con molta calma, ti fanno capire che hai sbagliato.

Insomma Laura mi aveva scritto quello che avrebbe indossato, per poterla riconoscere con sicurezza: una felpa verde, i jeans, le scarpe da ginnastica rosa.
Eh sì, bisogna tenere presente che in carcere anche le principesse più nobili vengono private dei loro abiti di seta, glieli ficcano in certi sacchi orrendi.
Naturalmente eravamo due gruppi separati: gli uomini da una parte e le donne dall’altra. In mezzo c’era il corridoio, a dividere i due gruppi come un fiume, e anche le guardie, come alligatori, che facevano battute pesanti a proposito della sessualità.
Noi e le donne non potevamo parlarci, ma solo guardare. Come Troisi quando deve guardare fisso la ragazza in chiesa in Non ci resta che piangere.
Io ero sicuro che l’avrei riconosciuta al primo sguardo, senza badare ai vestiti, dato che la mia immaginazione conosceva a memoria quello che c’era dentro. Invece non la vedevo.

Tra gli uomini regnava una gran confusione: gli slavi si agitavano. Pensai che fosse la vicinanza delle donne.
Mentre cercavo Laura notai che c’era una slava con aria altera, in piedi, che con la testa e gli occhi faceva dei cenni agli uomini.
Mi accorsi che la confusione era apparente: gli slavi svitavano le viti dalle seggiole, o toglievano pezzi di plastica e tutto quello che era possibile togliere. Le guardie non se ne accorgevano, o li lasciavano fare per divertirsi alle loro spalle. I soliti ridicoli tentativi di evasione degli slavi!

In quel momento è arrivato un altro scaglione di donne.
Io la felpa verde, le scarpe da ginnastica nere e i jeans li ho individuati al volo, solo che Laura ci aveva infilato dentro sua nonna. Sicuramente Laura non si era presentata per timidezza. Eppure quando scriveva sembrava molto disinvolta.
La nonna mi sorrideva ammiccante, anche io ho sorriso, per rispetto alla famiglia e alle tradizioni.
Però mi è venuto un dubbio tremendo sull’amore.

4. La finale
E venne il giorno della finale.
Slavi contro magrebini. Non è che fossi molto in forma, per via dell’interrogatorio notturno estenuante del Vecchio, con quegli altri che facevano finta di dormire ma sapevo che erano pronti a saltarmi addosso. A parte Fuad che sognava di palleggiare.
Non era stato proprio un allenamento da manuale.
Ma tanto dovevo stare in porta.
Fuad era concentratissimo. Si riscaldava neanche fosse a San Siro. Il suo entusiasmo era da ammirare.
Siamo usciti nel cubo di cemento, enorme, dove si disputava la partita. Un cubo senza tetto. Mi aspettavo sempre che il faccione di un gigante si affacciasse a guardarci, mentre correvamo dentro la scatola. Era un giorno tempestoso di gennaio. Grandi e fredde nuvole nere scorrevano sopra di noi come balene.
Nell’aria rimbalzavano urla di amore: gli uomini e le donne urlavano dalle finestre delle opposte sezioni i loro propositi e i loro sogni.

Per un po’ la partita è stata regolare. Poi l’arbitro, un ragazzo italiano, si è lasciato sfuggire la situazione di mano.
C’erano un po’ troppi falli.
E’ apparso il fratello del Cane, lo scheletro sudaticcio. Ma come! Una settimana prima urlava: mi ha spaccato la gamba, mi ha spaccato la gamba!
E ora eccolo lì in campo. E’ vero che zoppicava, e aveva una specie di gesso, di fasciatura, di cerotto gigante su quella gamba da cavalletta, ma la cosa non tornava comunque.
Si muoveva traballando per linee diagonali, ma questo era il suo modo naturale di muoversi, anche prima.
Si stroppicciava l’orecchio più di sempre, come ci avesse perso dentro qualcosa di prezioso, magari il cervello.
Victor era la loro punta, insieme allo Scheletro. Mi è passato accanto con altera eleganza asburgica e ha detto: tranchillo, tranchillo, sempre con quel sorrisetto e i baffi che fremevano.
Il suo non è un sorriso odioso come quello del Cane ma un sorriso vero, anche se un po’ strano.

Ora pioveva storto, e questo rendeva tutto più confuso. Le guardie si erano messe sotto la tettoia, da cui non si vede quasi niente.
In difesa avevamo Hamed, una specie di negro, quello che era entrato male sulla gamba del fratello del Cane. Hamed non è cattivo, solo che urla troppo. Le poche volte che non urla parla troppo veloce, è una cosa che innervosisce. Comunque di solito urla, non solo durante le partite, che sarebbe normale, ma anche per chiederti una sigaretta. Deve essere cresciuto in una famiglia di sordi. O di gente rabbiosa.
Però sono anche urla da disperato.
Comunque risulta insopportabile. E non è un caso se è sempre lui a complicare le cose con gli slavi.
Invece di pensare a giocare urlava che gli avevamo fatto il culo, a quegli albanesi, e che avevano le gambette fragili perché erano finocchi. Era una settimana che elaborava questi concetti, urlando e sputando.
Ma non si può vivere solo di ricordi. E Hamed quel giorno l’ha imparato.

Il Cane ha messo in mostra i denti, ha tirato fuori dalle mutande una caffettiera e gliela ha tirata in testa.
Hamed è crollato a terra senza neanche un urlo. Almeno, di lontano non l’ho sentito.
Poi gli schemi di gioco hanno perso in chiarezza, è vero che nessuna delle due squadre aveva un allenatore. Alcuni continuavano a correre dietro al pallone, per esempio Victor e Fuad, serissimi. Soprattutto Fuad sembrava veramente imperturbabile, probabilmente ha distrutto il confine tra sogno e veglia e pensa di essere sempre in una partita di calcio.
Gli altri invece hanno preso a inseguire le persone.
L’arbitro fischiava di continuo, ma inutilmente. L’hanno picchiato e ha smesso.
Le guardie non hanno fatto niente, forse non si sono accorte. E’ vero che tutti urlavano, a parte Hamed, ma urla ce ne sono sempre durante le partite.
Oppure alle guardie non gli importava, o avevano paura. D’altra parte li capisco.
La pioggia era fortissima, colpiva a ondate, sembrava di essere sul ponte di un barcone durante una tempesta.
Fuad ormai stava disputando la finale dei campionati del mondo, e andava alla grande.
Il fratello del Cane ha tirato fuori un ferro dalla fasciatura. All’inizio, da lontano, quel ferro lungo mi sembrava un osso dello scheletro, come se si fosse strappato un osso pur di avere un’arma, ma poi da come lo maneggiava mi sono accorto che doveva essere più duro e pesante.
Lo Scheletro tremava con aria malata e feroce.
E un sacco di altri slavi hanno tirato fuori da non so dove dei tubi e altra roba. E’ incredibile quante armi puoi procurarti in un carcere, dovrebbero metterlo nel Manuale delle giovani marmotte.
Poi si è saputo che i tubi e i ferri li avevano staccati dalle brande, o erano gambe dei tavolini e addirittura pezzi di sbarra della finestra. C’era chi aveva pezzi di muro.
Sotto la pioggia e i fulmini, gli slavi sembravano un’armata primitiva, partorita dall’inferno. Bastoni, tubi, ferri, caffettiere, pezzi di muro, pezzi di lavandino. Anche ferretti piccoli, ma terribili quando te li cacciano in un occhio. Non ce l’avevano solo con Hamed, che stava strisciando via mentre lo prendevano a calci e a sprangate. Si sono messi a colpire tutti senza pietà.
Noi non eravamo preparati a questo tipo di gioco. E’ un po’ come quando ti fanno gol a freddo al primo minuto.
Però abbiamo reagito dimostrando carattere, una vera squadra.
Quasi tutti i nostri avevano i tasca delle lamette e si sono messi a tagliare.
Bè, diciamo pure tutti.
In carcere una lametta te la porti sempre dietro, può sempre servire.
Per difendersi, come in questo caso.
Ma può anche servire per la malinconia, quando non ne puoi più, allora ti tagli e stai meglio.
Una volta avevo un coinquilino che si è tagliato i genitali, ma questo secondo me è eccessivo. Invece se ti incidi un po’ la pelle, per esempio sulle braccia, quello in certi momenti di aiuta, è meglio dello psicologo.
C’era una confusione indescrivibile. Ma sono rimasto in porta, come esige il mio ruolo.
Comunque, secondo gli slavi Hamed aveva diritto a un trattamento particolare.
Tra tuoni, fulmini e ondate di pioggia oscura il Cane e i suoi hanno preso a trascinare Hamed per i piedi, lo trascinavano verso i bagni dell’aria, per stare un po’ riparati. Lo vedevo allontanarsi di pozza in pozza. Sobbalzava come un rospo gigante catturato dalle scimmie carnivore.
Sembrava che il cemento si inclinasse, proprio come il ponte di un barcone.
Allora la nostra squadra ha cercato di recuperare Hamed, perché non era regolare che lo portassero fuori dal campo.
Fuad lo avevo perso di vista: era entrato nel sogno.
Gli unici che continuavano a badare alla palla eravamo io, Victor e un altro slavo, ci sembrava la cosa migliore. E’ vero che erano due contro uno, ma tanto non osavano tirare in porta perché se la palla usciva fuori magari venivamo coinvolti nel casino.
Io non mi schiodavo dalla linea di porta, avevo i piedi incollati. Mi pareva che ci fosse la faccia enorme di mia madre, a guardare nella scatola di cemento. Me la sentivo sulla nuca, ma non osavo guardare in su. Lei faceva la radiocronaca a mio padre, che non poteva affacciarsi perché era morto o perché stava aggiustando una scarpa.
Il campo era pieno di gente disinteressata.
Ogni tanto passavano e tiravano un calcio alla palla giusto per fare finta, così un osservatore distratto non avrebbe capito cosa stava succedendo.
Ci sarebbe voluta la moviola.
A un certo punto non ho capito più niente neppure io.

Una volta nei bagni dell’aria, hanno spaccato a sprangate un lavandino e con i pezzi hanno tagliato molto male tre ragazzi che cercavano di riportare Hamed in campo. Invece a Hamed gli hanno ficcato un pezzo di metallo in testa e ora lui è sotto macchinario. Anche se in realtà non era Hamed.

5. Ramadan
Infatti è venuto fuori che era un altro: Fuad. Da lontano mi sono sbagliato, c’era la tempesta.
Quelli che hanno preso Fuad non si sono sbagliati sulla sua identità. Ma visto che Hamed non sono riusciti a prenderlo, si sono accontentati di un altro, dato che la singola persona non contava più, il contenzioso era salito a un livello più alto: aveva assunto un valore generale, internazionale. Bastava che la vittima fosse un magrebino.
Dopo un po’ che quelli erano nel bagno a fare i loro comodi con Fuad, sono arrivate le guardie e c’è stata ancora più confusione. C’era gente che correva via nuda, ferita, poi cadeva e cominciava a strisciare sul cemento bagnato e alla fine si fermava. Altri preferivano rotolare.
A parte Fuad, che se lo staccano dalle macchine muore, e in queste condizioni secondo me è difficile che diventi un campione di calcio, anche tanti altri ragazzi sono stati ridotti molto male, sono stati rovinati.
E poi ci sono quelli che non si sono fatti nulla. Solo che erano entrati per farsi sei mesi e ora si fanno vent’anni.
Fai un po’ te.
Io mi sono salvato perché sono rimasto in porta, o forse è stato Victor a proteggermi. O il santo napoletano di quella vecchia.
Questa è una tipica storia di questo tipico posto.

Quella notte non dormii per nulla. Non hanno mai spento le luci. Sono entrati sei volte per la perquisizione, c’era agitazione e ci sono state altre botte. Hanno preso il Vecchio e lo hanno portato via per parlare un po’.
I coinquilini dicevano: chissà perché hanno preso lui, chissà che si dicono, di cosa parlano. Erano sospettosi, maligni, spaventati.
Io però pensavo a mio fratello. Lui è più piccolo di me. Da bambini non giocavamo quasi mai. Però mi sono ricordato di una volta. Durante il ramadan si lavora più di notte che di giorno, perché di giorno non mangi e sei debole. La notte aiutavo mio padre.
All’alba io e mio fratello prendiamo il pallone, ci mettiamo a giocare nel cortile polveroso davanti al negozio. Non c’era nessuno.
Non era chiaro chi giocava in porta, non era importante, anche perché non c’erano porte: ma solo noi.
Ricordo adesso quel pallone come se fosse ancora in volo, un messaggero di qualcosa.
A ripensarci mi si blocca l’anima.
Fratello, ti ricordi di quando giocavamo a pallone davanti alla bottega di nostro padre durante il ramadan?

6. Tempi supplementari
Il carcere è un mondo in miniatura. Una specie di mondo rifatto in laboratorio. Nell’esperimento, i magrebini stanno al terzo piano, gli slavi al secondo. Forse questo posto è stato creato proprio allo scopo di condurre esperimenti.
Il giorno dopo la finale è successo questo.
Noi magrebini stavamo scendendo all’aria. Quando siamo arrivati al pianerottolo del secondo piano, per un caso è stata aperta la sezione degli slavi, perché doveva entrare un’infermiera.
Allora il Vecchio e altri due, come se lo sapessero, si sono intrufolati con uno scatto incredibile.
Tra l’altro durante la notte ho scoperto che il Vecchio ha trentacinque anni. Non c’è verso: il carcere come istituto di bellezza non funziona.
Insomma questi tre sono schizzati a una velocità incredibile dietro l’infermiera.
La guardia è stata colta di sorpresa, perché di solito la gente cerca di uscire, non di entrare. E poi magari quelli volevano solo fare i buffoni con l’infermiera, in quanto donna. Però, come ha visto che l’infermiera la spingevano via, stava appena cominciando a pensare di fermarli che già dietro quei primi tre entravano nella sezione degli slavi tutti gli altri, come un fiume ribollente di lame. A quel punto non sapevo cosa fare e sono entrato anche io.
La guardia ha preso e se ne è andata a chiamare rinforzi.
Abbiamo trovato le celle aperte, perché quelli uno scherzo del genere mica se lo aspettavano. Stavano lì rilassati come prendessero il sole.
Io sono corso alla cella di Victor e l’ho chiuso dentro, e lui per una volta è stato contento di essere al sicuro. La vita è bella perché è imprevedibile.
Che fai, mi ha urlato il Vecchio rabbioso, ma poi ha lasciato perdere, era troppo preso dall’azione.
Hanno rovinato tanti ragazzi, con le lamette.
E’ stato tutto così veloce.
Alla fine c’era un bambino di novanta chili che si scuoteva tutto, come gli avessero danneggiato i congegni meccanici che aveva dentro. Era il Cane che brancolava a terra con i tendini recisi.

Enzo Fileno Carabba e Raul

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