lunedì 9 settembre 2013

D'estate

Siamo accampati a ridosso di una grande pineta, a pochi passi dalla spiaggia. Nel fitto del bosco non vedo nient’altro che tronchi d’albero giganti e più in là, verso il mare, un canneto. Per noi bambini le canne sono lance di cannibali infilzate nella sabbia. Alla vista delle lance urliamo e scappiamo lontano. Io corro sempre verso il mare perché la pineta mi fa paura se devo andarci solo. Dicono che là dentro c’è il fantasma di un minatore. Ma qui non ci sono miniere, solo sabbia, mare, pineta e canne. 
L’orologio segna le tre. Cammino verso il retro della nostra capanna con le mani sulla testa. Ho lasciato il cappello nella borsa del mare. Disegno con le orme un cerchio sulla sabbia e la sposto con la punta dei piedi per ricoprire le tane delle formiche. Tanto mica muoiono. Le cicale battono forte i denti dentro un cespuglio arso dal sole. Mi annoio, non c’è niente da fare qui e arriva da non so dove puzza di fogna. E poi Dino ha sete. Saltello verso la capanna per dare da bere al mio dinosauro di gomma.
L’acqua corrente arriva da un tubo di plastica verde che attinge da una cisterna e entra in casa nostra. Ci laviamo il viso, i piatti, i piedi sporchi di sabbia, la sera. Mamma dice che non dobbiamo sprecarla. Io dico che non è logico venire fin qui per le vacanze e dover fare a meno delle comodità che abbiamo in città, ma lei non risponde. Mi osserva mentre avvicino il dinosauro al tubo verde per farlo bere. Sorride e mi spettina i capelli. Poi se ne va verso la porta, a piedi scalzi.
La capanna in cui viviamo ha una sola stanza. Tutte le capanne sono fatte così, e si affacciano su un cortile di ghiaia bianca, portata da chissà chi per evitare alla terra e alla polvere di entrare dentro. Ma la terra e la polvere entrano lo stesso. Nessuno ci fa più caso dopo i primi giorni.
Il bagno qui lo chiamiamo cesso e lo dividiamo con gli altri. Quando vado al cesso devo stare attento a non sporcare, ma chi è stato lì prima di me non ha fatto altrettanto e più che stare attento a non sporcare, devo stare attento a non sporcarmi. Le persone a volte sono proprio zozze.
Mamma sta fumando in piedi, sulla soglia, con la schiena schiacciata alla porta. Sorride, poi si volta verso il cortile ed espelle il fumo. 
Quando viene papà? chiedo. 
Venerdì sera, dice lei. 
Mancano ancora due giorni a venerdì. Papà mi ha promesso che quando torna mi insegna a nuotare. So già nuotare, un po’. In acqua stacco i piedi dalla sabbia e mi butto in avanti verso un’onda, muovo le braccia come un cane e trattengo il respiro. Poi ruoto il busto e galleggio con la faccia al sole. Sono stato io a chiedergli di insegnarmi, domenica scorsa, poco prima che se ne andasse.
Facciamo l’ultimo bagno? mi ha chiesto.
Si, ho risposto con una specie di nodo alla gola. Non volevo che partisse. Mi insegni a nuotare? ho detto. Del nuoto mi importa poco, volevo solo che restasse ancora un po’. 
La prossima volta, ha risposto sollevandomi per un tuffo. Poi è uscito dall’acqua ed è andato ad asciugarsi.
Anche gli altri padri arrivano il venerdì sera e se ne vanno la domenica, tutti insieme, dopo cena. Arrivano e se ne vanno con una sola macchina, la 127 di Fustino, per risparmiare sulla benzina. Tranne lo zio Tacco. Lui non lavora, studia all’università. È lo zio dei bambini della capanna di fronte alla nostra. La mattina si alza quando il sole è già alto e fa colazione seduto sui gradini della capanna, con un pezzo di pane e una pesca. Sputa sempre il nocciolo sulla ghiaia. Le altre mamme dicono che è bello, la mia non dice nulla. Per me è il re degli stupidi. Tacco ha i piedi prensili e una cicatrice sul ginocchio. Ieri mi ha sorriso mentre afferrava un sasso col piede, si divertiva un mondo a fare quella cosa, ma a me non faceva ridere per niente. È uno che vuole sembrare simpatico a tutti i costi. Guarda sempre la mia capanna e mi chiedo cosa avrà mai da guardare, le capanne sono tutte uguali. 
La mattina noi bambini stiamo in spiaggia, con le mamme, le zie e le nonne. Mi piace il modo in cui la mamma mi asciuga dopo il bagno. Mi avvolge nell’asciugamano e strofina forte le spalle che quasi sento male. Ma quando arriva ai capelli fa piano e non vorrei mai che smettesse. Ogni tanto si aggiunge qualche amica senza figli, in visita dalla mattina alla sera, soprattutto amiche della mamma. Portano libri e frutta e fanno sempre un sacco di bagni in mare.
Non vai a giocare con gli altri bambini? mi chiede dopo aver spento la sigaretta in un bicchiere. Guarda fuori, verso la capanna di Tacco.
Alzo le spalle, infilo il dinosauro in tasca e mi avvio nel cortile per chiamare i miei compagni. Qui è vietato urlare. Possono farlo solo i grandi quando qualcuno di noi bambini ha combinato qualcosa di grosso. Quindi per chiamarci usiamo il campanello di una bicicletta. Due scampanellii bastano. Dopo pochi minuti siamo tutti in cortile. 
Che facciamo? chiede sempre uno di noi.
Andiamo in pineta, risponde qualcun altro.
Alla fine andiamo sempre in pineta. Oggi abbiamo deciso di portare l’acqua per preparare delle pozioni ammazza-cannibali. Portiamo una bottiglietta ciascuno, riempita con acqua di mare. Corriamo fino alla fine del sentiero, dove inizia la pineta, perché il sole picchia forte e il caldo è insopportabile. Sotto gli alberi invece cambia tutto. Sembra di entrare in un altro mondo. Cerchiamo di non pensare al fantasma del minatore, ma non è possibile fidarsi di quel bosco senza fine. Ci hanno detto che l’unione fa la forza e che i fantasmi hanno paura delle bande. E noi siamo una banda. 
Ci fermiamo davanti al pino stregato, quello con le strisce bianche e rosse dipinte sul tronco, ci sediamo in cerchio e tiriamo fuori i nostri portafortuna: un prisma, una clessidra, un portachiavi a forma di otto, una pallina di gomma trasparente e una biglia-arcobaleno.  L’albero stregato ci darà il potere perciò lo tocchiamo per circa un minuto. Per andare in cerca degli ingredienti per la pozione scelgo il mio compagno di ricerca, l’unica bambina del gruppo, così, perché non la sceglie mai nessuno.
Non faccio neanche tre passi che inciampo in una radice e cado in terra. Il ginocchio sanguina e le mani sono piene di graffi e punture di aghi. Ho fatto la figura del coglione con gli altri, con la bambina soprattutto, ma ora non me ne frega niente, la ferita è sporca e ho bisogno della mia mamma. Accarezzo il dinosauro nella tasca e inizio a correre. Niente da fare, zoppico. Non posso urlare perciò entro nella capanna chiamando la mamma con la voce di tutti i giorni. E poi non voglio spaventarla. Ho il fiatone e una paura da matti, la mamma userà un disinfettante al limone che brucia da schifo. La casa è vuota così mi avvio sul retro, dove le lenzuola e gli altri panni stesi si agitano piano, mossi da un vento con l’alito corto. 
Sotto uno dei lenzuoli vedo quattro piedi scalzi molto vicini.
Mamma, dico piano.
In piedi si allontanano. Mamma scosta il lenzuolo e vede  il sangue sul ginocchio. 
Che hai fatto? mi chiede.
Nulla, sono caduto, chi c’era con te?
Nessuno, andiamo a disinfettare la ferita, risponde.
Eppure ho visto quattro piedi, insisto. 
Hai visto male.
Era papà? e inizio a chiamarlo e a cercarlo dietro i panni stesi. Papà!
Vieni, dice lei.
Mi prende per mano e andiamo verso la capanna. Il sole mi acceca.
Ti fa male? mi chiede.
No.
E allora perché piangi?
Non rispondo. È il sole, vorrei dire, questo sole che non la finisce mai di bruciare. Ma non dico niente.

Elisa Minì

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