Quel giorno qualcuno chiese a K. di diventare ciò che mai avrebbe potuto essere. Forse perché lo era già. Finalmente, quando era ormai convinto di aver sbagliato strada, vide il bivio. Girò e si trovò di fronte una salita dall’asfalto sconnesso. Senza fermarsi K. guardò la mappa segnata a matita sul foglietto, calò la marcia e prese una mulattiera ripida, subito a destra. Chiuse i finestrini perché il vento spingeva in macchina la terra sollevata dalle ruote. Dietro a quella polvere il sole s’era ingiallito. Un arbusto secco rimbalzò sul cofano e volò via. Da un momento all’altro si aspettava un grande cancello di ferro fuso, con le colonnine di granito rosso. Lo vide comparire sulla sua destra, nascosto tra gli alberi, solitario nella notte che ne cancellava le forme. Fermò la macchina proprio davanti e trattenne il fiato. Dietro il cancello si intravedeva una strada senza fine, che si perdeva dietro la collina.
Tirò fuori dalla tasca il foglietto che gli era stato consegnato e si assicurò che il posto corrispondesse alla descrizione. Esitò a scendere dalla macchina. In quel momento il tempo cambiò forma, le lancette del suo orologio smisero di girare, come se anche loro seguissero misteriose indicazioni. Improvvisamente sentì un suono, come un ticchettio più forte. Era il segnale. Si ricordò che doveva uscire dalla macchina. Aprì lo sportello e scese, chiudendolo alle sue spalle in un suono sordo. Sistemò la sciarpa intorno al collo e infilò i guanti, come gli avevano detto di fare. Era solo, in quel bosco senza nome, davanti ad un cancello che proiettava nella notte un’ombra d’avventura, di libertà e di pericolo.
Appena lo raggiunse le porte di ferro cominciarono ad aprirsi, come tirate da fili invisibili. K. camminava nella nebbia che attutiva il rumore dei suoi passi, seguendo le indicazioni che aveva memorizzato. Sapeva dove portava quella strada e sapeva che lo stavano osservando. Con un bisturi frantumavano la sua immagine e si impadronivano dei suoi movimenti, per farne qualcosa che ingenuamente pensava potesse corrispondere all’idea che si era fatto di sé stesso.
Sorrise maliziosamente, mentre il suo corpo disegnava movimenti già stabiliti. Era una marionetta con quell'immenso potere di declinare la realtà secondo il gusto di chi guarda. Non comune realtà, ma una realtà più sincera della realtà stessa. Questa consapevolezza lo rendeva euforico e solo. La falsità della sua persona era una febbre che lo percorreva a tratti: più cercava di guarire, più si aggrappava disperatamente a quella maschera di sé stesso che tanto piaceva al mondo intero. Era malato e la malattia rende sempre l’uomo più corporeo, lo rende tutto corpo. Così era lui, una materia informe, muta e sola.
Aveva percorso quasi tutta la strada ed era ormai arrivato fino in cima alla collina. D’un tratto vide delinearsi una figura scura. Cercò di percorrere il buio con gli occhi ma non riusciva a distinguerla. Poi, d’improvviso, sentì una mano calda stringere la sua e trascinarlo via. Era totalmente incapace di reagire e si fece trasportare da quell’ombra silenziosa oltre la collina, fino ad una grande casa, una villa antica. “Aspetta qui davanti”, disse l’uomo che lo aveva portato fino lì, “presto ti daranno indicazioni e saprai quello che devi fare”.
Accettava tutto quello che succedeva senza chiedersene il motivo, in quel vuoto di pensieri che è anch'esso una specie di vuoto nel tempo. Osservava la villa delinearsi nell’oscurità di fronte a lui. Certamente gli avrebbero detto di entrare lì dentro. Aspettò ancora, stringendosi nel cappotto troppo leggero. Non arrivava nessuno e non resisteva quasi più, in piedi nella notte, solo e senza indicazioni. Poi d’un tratto un tuono ruppe quel silenzio insopportabile. No, non era un tuono, era una voce, un urlo. Poi le parole divennero più chiare e si accorse che era solo la voce metallica di un megafono. “Entra”, diceva quella voce. Non si voltò nella direzione di quel suono già atteso.
La porta era aperta. Il pavimento di legno scricchiolava pericolosamente. Era in tutto un'unica stanza, dalla geometria così semplice da sembrare fasulla. Vide di fronte a sé un foglio appeso alla parete con poche parole scritte di fretta. “Fingi di dormire e poi svegliati”. Le lesse di sfuggita e lentamente si tolse la sciarpa, i guanti e li appoggiò su una sedia. Cominciò a sbottonare il cappotto, si sfilò le scarpe sporche di fango e le appoggiò vicino alla porta. Si comportava come se quel posto fosse familiare, come se fosse casa sua. La stanza dove si trovava era grande e senza ornamenti. Solo un tavolo di legno, una candela appena accesa, una sedia e una branda in un angolo, con un vecchio materasso. K. aprì una borsa di tela e tirò fuori dei vestiti. Un pigiama, delle pantofole e una vestaglia scura. Non sembravano vestiti suoi, erano troppo grandi per lui. Non ci fece caso e si spogliò lentamente, rabbrividendo per il freddo. Poi si distese sulla branda, di fianco, con lo sguardo rivolto verso il muro.
Era in grado di dormire come un animale, anche solo per cinque minuti, eppure bastavano a dargli la sensazione di essere stato assente un’eternità, come se avesse messo la testa oltre un muro dietro il quale scopriva una rassicurante intimità. Dopo pochi minuti si alzò, si avvicinò al tavolo di legno e si sedette sulla sedia.
D'un tratto sentì uno scricchiolio, poi un rumore sempre più forte. Alzò la testa e vide delle crepe disegnarsi sul soffitto. Crollavano pezzi di intonaco sul tavolo e sul pavimento. Sapeva che doveva restare immobile perché nessun ordine gli era stato dato. Eppure allungò una mano e afferrò un pezzo del soffitto crollato davanti a lui.
Non era intonaco, era cartone. Non era di legno la sedia su cui sedeva, era di plastica. Si alzò inorridito. Il suo viso sembrava trasfigurato dall’orrore, dalla paura. Corse verso la candela che ormai era quasi finita e con le mani tremanti cercò di tenere in vita la debole fiamma, ma il vento proveniente dalle crepe sui muri la spense in pochi istanti. Cacciò un urlo, sembrava impazzito. Correva per la stanza, accarezzando le pareti, il letto, il piccolo tavolo, come per aggrapparsi a quelle forme prima che si sbriciolassero. Ansimava e percorreva quella stanza che si scioglieva rapidamente in uno spazio senza forme. Teneva la testa tra le mani e si graffiava il viso fuori di sé. Il rumore era assordante e la luce filtrava ormai dalle pareti, dalle crepe, dal soffitto che crollava. Invadeva la stanza e l’aria fredda penetrava con forza in quel grande spazio. K piangeva e si sentiva impotente. Terrorizzato corse verso l’unico angolo della stanza rimasto in piedi, dove ancora restava un po’ di oscurità. Si sedette per terra con la testa tra le mani come un bambino che chiude gli occhi, sperando di non essere visto. Le ginocchia gli premevano sul petto quasi a togliergli il fiato. La stanza crollava intorno a lui come fosse di carta.
Sentiva delle voci. Un brulichio di vita che si muoveva intorno a lui, che lo guardava, che si agitava. Intorno alle macerie comparve una folla anonima. Poi chiuse gli occhi e non sentì più nulla.
-Ciak!
Urlò il regista.
- Buona la prima! Smontate tutto e pulite il set.
In pochi minuti tutto fu pronto per la prossima scena.
Susanna Zellini
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