martedì 26 marzo 2013

Storia di Lena e di suo figlio Vìtia che non smetteva di morire


Lena era partita in corriera alla fine di aprile, sotto un sole pallido, quando le grondaie  gocciolavano ancora di neve. Vìtia dentro una coperta, e nella sporta quello che serviva: del pane e una mela, il pigiama pulito, le pezze di ricambio, una scatola di paracetamolo e due bottiglie di grappa di prugne per i dottori.
 Dimitri,  suo marito, un contadino che si fidava solo della terra, le aveva detto al telefono di non dare retta ai medici di Cernauz che non capivano niente e di partire in fretta per la città. E che anche lui l’avrebbe raggiunta col camion al dipartimento 26 dell’ospedale una volta consegnato il legname dall’altra parte d’Europa. E di stare tranquilla che quel figlio era una betulla, che stava piantato nella vita con radici orgogliose e che almeno lei doveva smetterla di piangere, perchè il latte se ne andava indietro e allora a suo figlio cosa gli avrebbe dato da mangiare quando guariva?
Le buche della strada tormentavano il viaggio, e moltiplicavano la fatica come se quell’autobus sporco di fango e di ruggine avesse dovuto portarselo lei sulla  schiena. Ma le campagne erano grasse, gli orti rigogliosi e la terra  sembrava buona sotto la nebbia. I boschi, gli alberi di noci,  tutta quella ricchezza come avrebbe potuto tradire i suoi figli?
Lena non aveva pregato, non aveva infilato biglietti votivi ripiegati nelle crepe dei muri, non aveva invocato il dio delle madri che dorme dentro un uovo, non aveva inventato scongiuri e sputato tre volte per terra per liberarsi dalle disgrazie. Era partita, più in fretta possible, per l‘ospedale di Kiev, Dipartimento 26.  E adesso, appisolata con suo figlio coricato sue ginocchia, sognava cavolfiori giganti con la bocca aperta che sorvolavano i villaggi  e scendevano in picchiata per mangiare le teste ai bambini. 
Per tre giorni era stata a guardare il liquido biancastro gocciolare nel corpo di Vìtia, gonfio come una zampogna. Ogni medico aveva dato un nome diverso al suo male: febbre emolitica, febbre reumatica, trombosi, infezione renale. Ma sull’esito di quel tormento erano tutti d’accordo perchè il piccolo non aveva  più fiato.
Lei gli scopriva la pancia e mostrava ai dottori che sotto l’ombelico vedeva un respiro, come un’anima che non si da pace. Un’ombra frontaliera sopra un ponte di confine, che fatica a passare da una parte all’altra,  che va chiamata forte, che va incoraggiata a venire, prima che cambi idea. Presto, prima che cambi idea. E loro, con la loro sapienza, erano lì per questo, al servizio del popolo,  per salvare tutti i figli del popolo .
Anche Dimitri da ragazzo era stato fiero pioniere, con la stella appuntata sul petto, pronto a marciare sventolando i fiori dietro le parate della  Terza Direzione del Ministero dell’ Industria Leggera, per quell’orgoglio di tecnologia che era il reattore Rbmk, che portava la luce e il lavoro nei cantoni piu sperduti della grande patria, e che non distruggeva i raccolti come le dighe, che sfondavano gli argini. Quel gioiello di scienza, geniale e indistruttibile, quel vigore che inebriava i potenti, quel miracolo che  gli uomini tenevano nelle mani come l’universo di un Cristo pantocratore.
Centinaia di migliaia di stivali, neri e pesanti, a battere forte il selciato per produrre un fragore esaltante e chiamare il mondo a guardare l’essenza pura, l’energia vitale sovrumana e l’ambizione più grande che alberga nel cuore degli uomini, quella di fermare la morte e prendere il posto di dio.
Ma c’è ancora molto lavoro da fare, compagni, per essere dio, molto lavoro. Lasciate fare. Lasciate fare ai fratelli più grandi che pensano al bene dei fratelli più piccoli. Lasciate fare e girate la faccia e sarà come  montare e smontare un giocattolo, provare e riprovare, buttarlo  a terra e farlo rimbalzare, lanciarlo contro i muri di pietra, per provare ancora e ancora la più divina delle vanità.
Un giovane medico aveva bisbigliato a qualcuno che alla stanza 18 c’era una madre che sembrava matta, lì da tre giorni a guardare un figlio morto, senza rassegnazione. 
Lena allo strazio aveva mischiato una malinconia sgomenta per quegli uomini confusi, senza fede e senza scienza, che non sapevano distinguere la vita dalla morte e che, infine, rassegnati, avevano sfilato dal naso del bimbo i tubi che provavano a nutrirlo. 
Vìtia era stato lavato, cambiato e consegnato alla madre come un pacco perchè fosse la sua terra ad accoglierlo per la sepoltura. Dimitri presto sarebbe arrivato col camion davanti al giardino del reparto pediatrico, dunque non c’era che da incamminarsi verso l’uscita, sedersi sotto un’ ombra e aspettare. 
I villaggi  erano stati evacuati. Sulla carta erano tracciati i confini di tre zone sorvegliate a diversa distanza dalla sorgente di radiazioni, che promettevano tre differenti livelli di disgrazie. 
Le vecchie non volevano partire. Restavano piantate nella terra, con le loro mucche malate, vicino ai fili sporchi del bucato. Per chi partiva vedere da lontano rimpicciolire queste figure care con il loro fazzoletto legato sotto il collo, senza un cenno di saluto con la mano, come appartenessero già ad un mondo inanimato, era uno strazio piu grande  di quello che aveva provocato l’esplosione. Perchè  queste madri erano visibili e tutto il resto no.
Se un apparecchio avesse dato luce all’interno dei corpi che sedevano composti dentro i mezzi militari avrebbe mostrato una meravigliosa fluorescenza che illuminava la notte, lampade votive in viaggio sulla terra sterrata, fuochi dorati in un movimento morbido e danzante, come le candele galleggianti sul fiume Desna per la cerimonia nella notte di San Nicolai.
E’ quasi sera quando Leda si sistema sul prato con in braccio suo figlio, appoggia la schiena al tronco di un albero, e stende le gambe. Lei sa che il suo latte non l’ha tradita e ha saputo aspettare.
Si sbottona la camicia e si scopre  un seno, avvicina la testa di Vìtia al capezzolo e con le dita lo aiuta ad aprire la bocca come fanno le tortore con il becco perchè i piccoli imparino come si fa a stare al mondo.
“Svegliati, è ora di mangiare”. Fa una leggera pressione dietro la testa del piccolo perchè prema bene le labbra attorno all’areola scura che già comincia a colare.
Il piccolo non apre gli occhi, ha passato troppo tempo in un mondo buio, la luce radente della sera lo disturba, ma il respiro della sua pancia si fa più deciso, sale ai polmoni e diventa singulto. “Svegliati Vìtia! E’ ora di mangiare”.
Lena si sente la faccia rossa d’emozione come se a sgorgare fosse acqua trasparente e benedetta,  come se attorno a lei uomini,  donne  e bambini si preparassero  coi  bicchieri e le brocche e i secchi giganti per farsi avanti e per raccoglierla tutta e non perderne una goccia. Per rinfrescare da dentro  i corpi bruciati, per dissetare gli alberi e gli animali, per fare umido e produrre nuvole, e pioggia, e pulito.


Elena Bellei

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