Mi chiamo Jason, ho 43 anni e ho commesso un peccato di gola.
Fin da quando ne ho ricordo i miei genitori hanno abusato di me: mia madre che, senza motivo, mi portava in bagno e mi picchiava, fino a farmi perdere coscienza. Mio padre che, di notte, si introfulava nella mia stanza e mi violentava.
Durante l'adolescenza uscivo di casa solo per andare a scuola, non avevo amici. L'unico mezzo che avevo per non sentirmi solo era il cibo. Esso, con il passare degli anni, divenne molto più che un compagno, divenne la mia ossessione, il mio ossigeno, la mia ragione di vita.
E così sono arrivato dove sono adesso: costretto dalla mia massa su una sedia a rotelle elettrica.
Sto guardando la TV, faccio zapping e mi fermo su uno dei soliti programmi sull'obesità, che ripetono quanto siano infelici e sole le persone obese.
Io sono a posto così. Ho il cibo, non mi serve nessuno e nient'altro.
Spengo la TV, e avvio la mia sedia verso la camera da letto, pensando già di cosa potrei nutrirmi verso l'ora di mezzanotte.
Mi rotolo nel letto, spengo la luce e chiudo gli occhi.
Avvolto nell'oscurità, sento degli strani rumori. Subito penso sia la televisione dei vicini, che è sempre ad un volume inaccettabile ma dopo un po' mi rendo conto che i lamenti, i colpi, sono dentro casa mia.
Riaccendo la luce e, accompagnato dal ronzio del motore della sedia, mi dirigo verso la cucina. Noto che da sotto la porta un debole bagliore illumina il pavimento.
Non sono famoso per il mio coraggio, motivo per cui mi affaccio in cucina con il cuore in gola.
Il frigorifero è mezzo aperto, il chiarore inonda la stanza. I lamenti provengono proprio da lì. Mi faccio coraggio e decido di spalancarlo. Gli occhi, non appena smettono di bruciare e si abituano alla luce, mi mostrano la cosa più angosciante che abbia mai visto: il cibo che fino a qualche ora fa alloggiava nel frigorifero, era stato sostituito con resti del corpo di una donna in uno stato di decomposizione ormai avanzato.
La testa, paralizzata in un'espressione di sgomento, è rivolta dalla mia parte, e gli occhi ingialliti sono fissi sui miei.
All'improvviso, il volto della donna si anima, la testa rotola sul pavimento, seguita dal resto del corpo.
I pezzi, sparsi sulle piastrelle della cucina, iniziano a ricongiungersi: le mani trascinate dalle dita, gli arti strisciando come vermi. A poco a poco il corpo putrefatto della donna si ricostruisce sotto i miei occhi.
Il cadavere mi fissa. Protende le braccia verso di me, le mani puntate sul mio collo e, con una lentezza estrema, percorre i due passi che ci separano.
I nostri volti ora sono vicinissimi: dalla sua bocca esce un'olezzo di putrefazione che riempe le mie narici, l'odore, così pungente, fa lacrimare i miei occhi.
Dopo un'attimo, a me parso interminabile, la donna apre la bocca, molto più di quanto la natura lo permetta, inghiottisce la mia testa e, con un colpo secco, la stacca dal resto del corpo; esso si sgretola, e ricade su sé stesso in forma di polvere sulle piastrelle della cucina.
La donna, con lo sguardo fisso sui resti di ciò che un tempo sorreggeva il mio cranio, rientra nel frigorifero e ci si chiude dentro.
Ora, dentro a quel frigorifero, aspetto. Aspetto che arrivi qualcuno che, sentendo i miei lamenti nel cuore della notte apra l'anta che sta di fronte a me.
Elisabetta Felici
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