mercoledì 14 novembre 2012

No Title


In principio era il libro? No, in principio c’era semmai questo mazzo di carte che quando andavo in cerca di soldi nei cassetti di casa mi c’imbattevo spesso. Cinquantadue carte non esattamente da gioco, e ognuna con una figura, ad esempio quella del postino o un’altra con un forziere aperto e sacchetti con denari e preziosi al suo interno. Ognuna di queste carte aveva una didascalia e l’insieme era denominato La Sibilla. Carte divinatorie che servivano, detto cosí a spanne, a leggere il futuro, anche se al momento non sapevo bene che volesse dire. Io ero un ragazzo, e la vita di un ragazzo è puro presente senza complicazioni sovrastrutturali. 
Quelle carte erano di mia madre e in certi momenti di non particolare allegria capitava che gliele vedessi maneggiare, ma sempre come di nascosto. I pochi momenti in cui mia madre aveva modo di riflettere su se stessa e sulla sua condizione di madre e capofamiglia a cui da un paio d’anni le era stati concessi sei mesi da vivere (cosa che lei sapeva) erano quando la sera cercava d’imboccare o, per meglio dire, di far ingurgitare la cena (una fetta di filetto ai ferri passato al tritatutto piú una patata e una carota schiacciate il tutto mescolato assieme) al Peter Pan di casa: il suo secondogenito Diego, il mio fratellastro. Poveretta non aveva pensieri che per lui, e l’unico modo che avevo io di ottenere la sua attenzione era sottrarle soldi dal cassetto. Era più forte di me. Certe volte la rapinavo, e pure lo sapevo che quelli erano i soldi per le bollette, per qualche spesa importante, per una cambiale. Ogni volta giuravo a me stesso che sarebbe stata quella l’ultima, ma mentre arraffandoli me li cacciavo appallottolati in tasca, per poi correre a spenderli, sapevo anche che la sera lei accorgendosene mi avrebbe massacrato di botte e segnato la schiena a forza di cinghiate. Ma chi lo sa che mi pigliava? Terrore e piacere riuscivano a mescolarsi dentro di me in una miscela deflagrante che percepivo in un intenso brivido di freddo che mi percorreva la schiena come una corrente elettrica per poi esplodere nel cervello come un orgasmo raggelato. Qualunque cosa andava bene: giocattoli, visto che mia madre non me comprava mai, oppure canne e attrezzatura da pesca, con esche complicate, adatte piú ai torrenti americani che non al fiume Po. 
Riguardo alla pesca non ho mai pescato niente se non un unico piccolo pesce che forse a suo modo era un bambino come me. Praticavo – ma si fa per dire – la pesca al lancio. Con una canna corta in fibra di vetro semirigida e mulinello a campana americano (un occhio della testa era costato, davvero un sacco di cinghiate), il cucchiaino invece era questo piccolo aggeggio metallico, luccicante, girevole su suo un asse grazie a una pinnetta di metallo con sotto un’ancoretta il cui vorticare nell’acqua avrebbe dovuto attirare il pesce. Ma quel tipo di pesca che mi ostinavo a voler praticare, in riva al Po era del tutto inadatta. Avrebbe richiesto impetuosi torrenti montani dall’acqua cristallina. Mi era stato detto centinaia di volte che a quel modo non avrei mai preso niente nemmeno per sbaglio. Ma a me piaceva cercare il lancio perfetto, quello di quaranta cinquanta metri – col rischio di arrivare alla riva opposta del fiume – e poi recuperare per ripeterne subito il lancio. Spesso il rischio era che il cucchiaino, zavorrato di piombini in cima al filo, se non recuperato abbastanza velocemente, affondando s’infilasse in qualche anfratto nel fondo del Po, limaccioso e pieno di schifezze d’ogni tipo che con acqua e pesce niente aveva a che fare. Ma pescare con amo, verme di mosca e galleggiante, o fare la pesca da fondo, aspettando che il campanellino in punta al cimino della canna da otto metri suonasse il suo diling diling non erano roba per me. Mercuriale frenetico come sono sempre stato, quella genere di pesca era da pensionato immalinconito che aspetta il colpo definitivo lo sottragga alla noia di una vita ormai incomprensibile. 
Per strana ventura questo pesciolino venne agganciato dal caso sul dorso e trascinato a riva da me che stupìto lo osservai agonizzare e morire in pochi minuti tra le mie dita. Fino a quel momento non sapevo cosa fosse la morte. Mi vidi identificato in lui e persi la mia immortalità, e anche per me avvenne la cacciata dal giardino dell’Eden.


Riccardo Subri

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