lunedì 3 settembre 2012

Tsantsa a luci rosse


La prima impressione che ebbi della giungla amazzonica era che non mi piaceva. Impressione confermata quando l’avvocato mi disse che ci eravamo persi. Tutte le sue chiacchiere, vestitino safari e gingilli GPS non ci avrebbero tirati fuori da lì. L’unica cosa da fare, disse, era battere su un albero. Ci mettemmo a martellare sul fusto di una magnolia con i lati non taglienti dei nostri machetes.
“Ecco, dovrebbe bastare così,” disse l’avvocato. “Ora aspettiamo.”
“Di morire?”
Deglutì forte. “No. Aspettiamo gli indios.”
Non ci misero molto ad arrivare. Erano poderosi dèi della foresta, con i capelli neri tagliati a ciotola. Bracciali di fibra gonfiavano i loro bicipiti. L’avvocato tese il suo machete, tenendolo per la lama, offrendoglielo in un gesto di pace. L’indio più alto e forzuto lo prese e gli mozzò la testa con un colpo solo. Il sangue schizzò dappertutto. Il corpo senza testa cadde piano, come un albero spruzzante sangue. Non appena toccò la terra spugnosa, uno sciame di formiconi rossi e scorpioni gli fu addosso.
L’indio mozzatore di teste mi guardò. “Lui, l’avevamo già visto,” disse. “Era un avvocato. Lavorava per le multinazionali. Loro ci abbattono gli alberi, e fanno costruire supermercati. Tu sei uno di loro?”
“Io? No. Io scrivo pornografia.”
“Ciò non è come essere avvocato, vero?”
“Decisamente no.”
Uno degli indios raccattò la testa grondante dell’avvocato e la mise in una sporta tessuta da liane.
“Siete Jívaros? Yanomami?” chiesi al mozzatore di teste.
“No. Siamo Bororos. Io sono il Capo Uai-Uai.”
“Siete voi che credete che noi esseri umani non siamo individui, ma solo parti di una coscienza collettiva, interamente dipendenti da ciò che ci circonda per la nostra identità?”
“Proprio noi. In questo momento, per esempio, tu esisti perché non ti abbiamo tagliato la testa…non ancora. Andiamo.”
Quei Bororos camminavano spediti. Passare attraverso la giungla fitta e soffocante era, per loro, come fare due passi su Broadway. Il villaggio era una radura piena di capannoni di vimini. Gli abitanti stavano accovacciati nudi. Mi fissavano come se non avessero mai visto prima un uomo bianco calvo. Le damigelle Bororo avevano belle tettine sode. Sembravano amichevoli. Una di loro mi salutò, scuotendosi tutta.
Capo Uai-Uai mi afferrò per l’orecchio e mi trascinò dentro un capannone. Mi trovai in un ambiente di soli uomini: vecchi che sembravano pipistrelli rasati, guerrieri pieni di muscoli e machetes. C’era un fuoco acceso, nonostante facesse così caldo fuori. Cominiciai a sudare nervosamente.
“OK, uomo-porno della grande città...faccelo venir duro.”
“Ehi, aspettate. Non sono mica una specie di cantastorie tribale. Io utilizzo un…insomma, una macchina per scrivere. Per farmi pubblicare in delle riviste segaiole.”
“Noi non leggiamo. Né scriviamo. Qual’è il problema? Sei stanco di vivere?”
Non risposi. Quel che avevo da dire sulla vita li avrebbe solo spazientiti.
Iniziai con una banalissima scena del tipo pizza da asporto, consegna a domicilio. Poi raccontai del dottor Johnny Wong—un nanerottolo asiatico, proctologo, specialista in donne incinte.
I Bororos mi pregarono di fermarmi un attimo, per far venire ad ascoltare anche alcune pupe della tribù che erano incinte davvero.
Tony, il confezionatore corrotto di reggiseni su misura li mise in confusione. Dovetti spiegare il concetto del reggiseno a dei selvaggi a culo nudo. Con Mr. Kenneth, il parrucchiere superdotato non del tutto frocio nonostante le apparenze, non ebbero alcun problema.
Dopo poco, tutta la tribù era riunita nel capannone per ascoltare storielle zozze. Stavano in piedi, a parte quelli che si erano messi a scopare per terra. Per tradizione, i Bororos trombano in silenzio, emettendo al massimo dei grugniti. Gli insegnai alcuni elementi basici di torpiloquio. Poi raccontai di come mia zia Doris mi aveva iniziato ai misteri dell’amore carnale tra un adolescente e una donna matura. I Bororos ne andarono pazzi. Alcuni guerrieri scapoli si menavano le nerchie. Le verginelle si sditalinavano le passerine ancora implumi. Le altre donne si penetravano coi pestelli che di solito usavano per macinare il manioca.
Si era fatta notte. Avevo la gola secca. Chiesi a Capo Uai-Uai se potevo fare una pausa,  magari bermi una scodella di chicha.
“Ancora una storia,” disse lui. “Anale.”
I Fratellini Leather prima sfotterono una biondina completamente cotta di loro, e poi se la incularono. Le pisciarono entrambi nell’ano, ridendo come iene.
I Bororos erano ormai fuori controllo. Non era rimasto asciutto nemmeno un centimetro quadrato del pavimento di terra battuta.
A cena mangiammo scimmia arrostita. Almeno speravo che fosse scimmia. Ripetuti Cocktails di chicha ebbero l’effetto desiderato. Capo Uai-Uai spinse verso di me una fanciulla snella, con delle tettine a bocciolo di rosa. Alcune racchie con le poppe penzolanti prepararono una sezione di capannone per fare da alcova per me e la mia nuova mogliettina.
La piccola Miao era tutta allupata. A lei non sembrava strano consumare la luna di miele spacca-amaca davanti a tutta la sua tribù. Anch’io, dopo pochi minuti, mi ci abituai.
La mia posizione nella vita tribale era alquanto privilegiata. Non ero tenuto a partecipare alla caccia, o la guerra, la ricerca di teste da mozzare e rimpicciolire, se non me la sentivo. Al Capo Uai-Uai spettava la prima scelta sulla roba da mangiare, poi allo stregone, poi ad un fustacchione che ammazzava giaguari a mani nude, poi a me. Ogni due settimane, più o meno, ero di scena per la Serata delle Storie Zozze. I Bororos erano un pubblico entusiasta. La piccola Miao imparò presto a fare numeri di spogliarello. La musica faceva schifo—tamburi attutiti e flauti lunghi due metri—ma il sindacato dei musicisti Bororos minacciarono una rivolta a suon di machetes quando proposi dei cambiamenti al loro repertorio. Miao ed io fummo sommersi d’applausi quando esordimmo in un amplesso dal vivo. I Bororos non avevano ancora scoperto la Ruota Messicana—ci chiesero tre volte il bis.
Una notte, poco dopo che la nostra amaca aveva smesso di dondolare, Miao mi disse che Chunga l’uccisore di giaguari le aveva dato cinque zanne per una scopata nella foresta oltre i confini del villaggio, dove non erano in vigore i tabù tribali. Cercai di spiegarle che prostituirsi non è una bella cosa, ma lei non capì, o fece finta di non capire.
In breve tempo i guerrieri smisero di partire per le battute di caccia. Rimanevano nelle loro amache a far battute di seghe. Una spedizione punitiva contro una tribù rivale fu annullata perché gli uomini del capannone nord si erano scambiati le mogli con quelli del capannone ovest. La produzione del manioc si bloccò del tutto. Le pupe Bororo trovarono un uso più godereccio per i pali che prima adoperavano per la trebbiatura.
L’impulso del Capo Uai-Uai era di recidere a dritta e a manca delle teste per mantenere la disciplina, ma era distratto dal suo dovere dalle nubili tutte vogliose di spompinarlo.
Lo sciamano avrebbe potuto accusarmi di essere uno spirito maligno. Sarebbe bastata una sua parola per farmi finire fritto nell’olio di palma per un’orgia cannibale. Ma anche il vecchio stregone era ossessionato dal sesso. Le racchie del villaggio gli lustravano sdentatamente il palo totem, in cambio del suo magico lubrificante vaginale.
I Bororos erano ridotti ad un branco di scimpanzé bonobos in perpetuo calore, ed era tutta colpa mia. La coscienza mi diceva che me ne sarei dovuto andare dal loro villaggio. Ma tra me e la civiltà corrotta c’era la giungla impenetrabile. Sapevo che da solo non ce l’avrei mai fatta.
“Senti, Miao,” dissi. “Sono un uomo cattivo.”
“No che non lo sei, paparino. Tu rendi sempre così felice la mia fighettina rosa.”
“Ne sono contento, bambola. Ma non sono buono per la tua tribù. Voi Bororos dovreste essere dei fieri, feroci guerrieri cacciatori di teste. Ma siete diventati dei segaioli cronici, ninfomani, puttane.” Tastai la sua collana di zanne di giaguaro, che era diventato un fottuto rosario.
“Tu ci hai insegnato a fare l’amore anziché la guerra,” disse lei. “L’amore è bello. Il sesso non è una cosa sporca.”
“Sì, ma…devo andarmene comunque, tornare alla mia tribù.”
Pianse, ma capì.
Partimmo poco prima dell’alba, dopo una furiosa sessione d’amaca.
Capo Uai-Uai ci stava aspettando. Spuntò da dietro un banyan, con in mano il machete. Non aveva l’aria di voler scherzare. Spinsi di lato la piccola Miao.
“Avanti, Uai-Uai, amico mio. Fammi secco. Fa’ di me un esempio di quel che succede a tutti i putridi fabbricatori di lerciume”
Mi porse il suo machete personalizzato. “Vaya con diòs, amico. Miao, accompagnalo fino a Rio. Poi riporta subito indietro il tuo bel culetto. Ho una borsa piena di zanne di giaguaro da regalare alla mia prossima moglie, cioè te.”
Miagolò contenta e batté le mani. Sapeva che qualsiasi giaguaro avrebbe fatto di me spezzatino.
Capo Uai-Uai mi strinse al suo petto in un ultimo, forte abbraccio fraterno. “Ci siamo divertiti un fottìo,” mi disse. “Ma ora sparisci, viscido.”
Come regalo d’addio, mi diede la testa del mio ex-amico avvocato, rimpicciolita fino alle dimensioni di un pugno peloso. Ne ero estasiato: per qualche motivo, avevo sempre desiderato una tsantsa.
Miao mi fece arrivare sulla spiaggia di Copacabana in tempo per il tramonto. Ballammo un’ultima lambada orizzontale, poi scomparve, tutta bramosa di zanne di giaguaro.
La testa rimpicciolita dell’avvocato pende dal codino sopra il televisore. Ogni tanto faccio una domanda alla mia tsantsa, come fosse un mostruoso giocattolo profetico da seduta spiritica. Le labbra rigonfie sono cucite con del filo grezzo, ricavato dalle piante della giungla; sono inoltre sigillate da delle lunghe spine nere. La tsantsa mi dà ogni volta la risposta giusta.

Matthew Licht

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