lunedì 24 settembre 2012

Pendolare


Sono un pendolare. Per andare al lavoro prendo il treno, ogni giorno. 
Di solito ci metto  un'ora e mezza per compiere il tragitto.
Quando torno a casa salgo sul vagone e aspetto che il convoglio parta. 
Mi siedo quasi sempre di spalle rispetto alla direzione di marcia e sempre vicino al corridoio, non al finestrino.
Il fatto è che mi piace ascoltare. 
Il movimento ritmico, ondulatorio, della marcia ha il potere di dissolvere tutte le mie tensioni, è terapeutico. È come quando passi il mixer nell'impasto della torta: se non hai fatto attenzione a mescolare, se non hai versato la farina con il colino, è pieno di grumi. Allora passi il mixer e tutti i grumi si sciolgono. Ecco, è così che funziona.
Il treno parte e lenta, dal centro del petto, parte un'onda. Lenta, ma decisa. Scioglie i grumi e mi predispone al viaggio.  All'ascolto.
Sì, perché io ho un udito molto fine, e durante il viaggio ascolto. Ascolto tutto quello che si dice intorno a me.
Chiudo gli occhi e ascolto. Senza farmi notare.  Anche per questo viaggio da solo: non scambio parole con nessuno. Ascoltare è un'attività che richiede impegno.
Mi assesto contro lo schienale del sedile e guardo il cellulare, ma non ci sono chiamate perse. Lo infilo in tasca e mi preparo.

Come al solito, il diciottenne coi capelli lunghi inonda di parole la ragazza che viaggia con lui.
Sono lì ogni giorno, sempre negli stessi posti. Forse sono studenti, non so. Lui la intontisce, sempre, e per me è un mistero perché lei lo stia a sentire, ma forse non lo ascolta, solo lo lascia parlare e ogni tanto scuote la testa in un gesto vago che non vuol dire né sì, né no:
-Tipo: due anni fa, mi piacevano tutti gli album dei Led Zeppelin, adesso mi piace qualche brano, qua e là.
Sono seduti nei sedili dietro al mio. Lei emette un gemito. Di sicuro lui non lo ha sentito, non lo sente mai, coperto dal proprio cicaleccio. Ma lei fa così: sospira, fino a che il respiro non le si strozza in un lamento, sembra che la aiuti a sopportarlo. Eppure continuano a viaggiare insieme: forse sono obbligati, forse lei è obbligata. 
Lui parla sempre tenendo la testa bassa e in fondo è come se già lo sapesse che dialoga con se stesso. Lei, invece, sono sicuro che guarda fuori dal finestrino.

Tre uomini si siedono nei sedili che mi circondano. Io faccio finta di dormire.
-L'altro giorno mi sono commosso- dice il primo. Lo vedo a mala pena tra le palpebre socchiuse, ma  dalla sua voce capisco che sorride.
Si guarda intorno cercando un segno, un invito a continuare. Le facce dei suoi compagni di viaggio sono stanche e si consegnano senza combattere alla forza di gravità.
-Per i miei figli- butta lì. Basta che il suo vicino si giri verso di lui per farlo andare avanti.
-Sai, no, che venerdì scorso era la festa del papà.
L'amico fa un cenno. Emette una sorta di grugnito.
-Be', guarda, mi hanno sorpreso, mi hanno fatto una lettera...
-Mmmhh.
-Come quando erano piccoli.
Uno dei tre si è addormentato e respira pesante. Dà uno scossone, si gira e comincio a sentire un lieve russare.
-Eh, adesso uno ha ventitré anni e  l'altro diciannove.
-Mmmhh.
-Sai, vivono a casa, uno studia, l'altro fa dei lavoretti... a progetto.
Silenzio.
-Mi sono trovato una lettera sul piatto, la sera.
Altro grugnito.
-La lettera, c'era dentro un... disegno. Con una dedica- si sforza di ricordare -c'era scritto... “prendici ancora per mano come quando eravamo piccoli”.
L'altro lo guarda, inespressivo.
-Volevano dei soldi?
-Ma vai a cagare.

Alla mia destra, dall'altra parte del corridoio ci sono due donne.
Quella dal viso più triste rompe il silenzio.
-Stanotte ho di nuovo sognato mio marito.
L'altra deforma il viso in una smorfia. Lascia passare qualche secondo prima di chiedere:
-Quant'è adesso che...
-Dieci mesi.
Le parole restano sospese, e l'amica non trova niente da dire. 
Il treno continua il suo movimento e ci scuote, facendoci oscillare in sincronia.
-Eravamo su una pista di sci. Lui mi diceva: devi stare giù, in avanti, piega le gambe, sennò cadi indietro e non avanzi.
-Andavate a sciare spesso?
-Non andavamo mai, non sappiamo sciare... Lui non sapeva sciare- cambia il tempo al verbo.
-Eravamo vestiti con tutto... le tute , gli scarponi, gli sci, tutto. Lui mi diceva: piega le gambe. Poi si è dato una spinta e ha iniziato la discesa. Io non sapevo come seguirlo, ero in panico.
La voce si è fatta stridula. Si soffia il naso.
L'amica si sporge in avanti.
-Ehi, sta su.
Ma ormai ha iniziato a piangere e sembra non poter smettere.
-Sta su, sta su, per cosa? Perché continuo a vivere? Avrei dovuto ammazzarmi quando è morto lui.
-Piantala, che cosa dici?
-Non voglio andare avanti senza di lui, da sola. Non voglio, non ce la faccio.
L'amica si sporge in avanti, la tiene tra le braccia. L'altra si abbandona e piange rumorosamente.

Lo studente alza lo sguardo verso la sua compagna e tace, legge sul suo viso quello che ha sempre ignorato, e lascia che prenda forma un silenzio, uno spazio che sarà lei a scegliere come riempire.
I tre amici stanno ridendo, ora, e guardano le foto dei due ragazzi che il padre sta mostrando loro, con orgoglio.
La donna, stanca, sta dormendo. Nel suo sogno ci sta provando, sta piegando le gambe e butta il peso in avanti: ecco, sta scivolando sulla neve, riesce a dirigere il corpo a destra e a sinistra, scia con crescente sicurezza. Il marito è là, davanti, lei lo vede, è un punto fermo della sua vita. Non tenta di raggiungerlo, scende per conto proprio, lui sarà sempre là davanti, ma lei andrà per la sua strada, acquistando velocità.
E finalmente squilla il cellulare: mi stai chiamando, mi dici che ti manco, mi chiedi come mi sento. 
Sto per rispondere: ma tu non sei così, lo so. E capisco che niente di questo è reale, e che io, con gli occhi chiusi, mi sto immaginando tutto.

Aldo Quario

1 commento:

  1. Anch'io prendo il treno e mi riconosco in questa atmosfera di ricerca antropologica involontaria.
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