lunedì 10 settembre 2012

La verità


Ho aspettato il grano. Che il verde lasciasse improvvisamente il posto all'oro. Ho aspettato l'Ucraina per rivolgere a Balakin il mio sguardo da sconosciuto.
Nello scompartimento eravamo in quattro. La donna dai capelli neri e il fazzoletto rosso e il bambino silenzioso erano saliti a Bransk. Io e lui, invece, seduti uno davanti all'altro ai posti vicini al finestrino, eravamo sul treno dall'inizio, da Mosca, anche se io avevo passato la prima parte del viaggio nel vagone di coda.
Conoscevo il suo volto, e la sua storia. Per lo meno quella che avevo letto e riletto nel dossier che mi avevano consegnato alla Lubjanka. A me bastava, perché non mi chiedevo mai se quello che recitavano i fascicoli fosse o meno reale, la verità può essere declinata in vari modi. La soluzione, la carta vincente era stata proprio rendere la verità e la realtà perfettamente sovrapponibili.
Mentre ci pensavo i miei occhi cercarono da soli la copia della Pravda che mi riposava accanto dall'inizio della corsa, fresca come una rosa, leggermente sgualcita solo alla pagina con la vittoria della Dynamo in alto e la foto di una parata di Lev' Jashin al centro. Difficile che faccia qualcosa senza volerlo, ma sorrisi, quella volta.
Balakin era immerso nella lettura. Il sole che incendiava i campi, là fuori, non lo aveva distolto. Al cambio di panorama aveva guardato fuori dal finestrino solo per un lungo attimo. In quel momento so che tradì qualcosa, una specie di emozione, senza che però riuscissi a misurarla, a darle un nome o un posto preciso, perché subito era tornato al libro che stringeva tra le mani. Presi il giornale tra le mie e lo osservai meglio. Era sì quello delle foto che avevo passato in rassegna tante volte, ma anche no. Indossava una giacca anonima, pratica, del colore e dell'indifferenza delle divise militari, pantaloni marroni e stivali di cuoio da carrettiere. Aveva capelli radi, pelle scura, mani nervose.
So dov'è e com'è la paura. La riconosco subito. Ne bastano dosi anche minime a farmene sentire l'usta. E se nello scompartimento ce n'era di quell'odore, non arrivava certo da Balakin. Lui era calmo, attento, consapevole. Soddisfatto e in pace azzardai. Cosa notevole per un animale braccato, pensai immediatamente dopo.
Nessuno dei suoi libri circolava più nel paese. E l'ultimo, quello che sarebbe riuscito a spiegare anche a un bambino la geografia aberrante del mondo dove lo avevano piantato, era stato la sua condanna. A sparire, a smettere di vivere come si dovrebbe vivere, a privarsi della voce. Io non avevo letto nulla di suo, ma non avevo ragione né voglia di dubitare delle versioni ufficiali. Le mie preferite. Rassicuranti come un vangelo, come un abbraccio, come la neve. Lo tenevamo sotto controllo, sempre. Ma lo avevamo lasciato a spasso. Senza voce ci sembrava innocuo come un cucciolo ed opportuno come un esempio. Le ultime coordinate lo volevano in fuga, da Odessa, verso la Turchia ed ecco che era arrivato il momento di togliergli il poco che gli restava. Eccomi, allora.
- Mi piace molto leggere – disse Balakin a bruciapelo, sporgendo gli occhi sopra gli occhialini rotondi di metallo e guardandomi. Aveva una voce calda; e ferma. Il libro era ancora tra le sue mani, ma appoggiato sulle ginocchia.
Anche se la sua era un'affermazione e non una domanda, l'aveva formulata in modo da lasciare un seguito, uno spazio da riempire. Seppi in anticipo di non esserne capace, che avrei gracchiato rispondendo e mi limitai ad annuire con un sorriso falso come la felicità e ad indicare il volume aperto sulle sue ginocchia.
-  Maksim Gor'kij. "La madre" – continuò allora lui, mostrando la copertina rosso sangue con il titolo in lettere bianche.
-  Scelta perfetta, compagno – risposi. La mia voce aveva un che di sprezzante. E non ne fui contento. Non so perché.

-  Patria e lotta. Di questo parla, alla fine – disse Balakin, tornando a leggere.
Ebbi l'impressione che avesse alzato, volutamente, il tono della voce alla parola "lotta".
La donna con il fazzoletto rosso, intanto, si era addormentata e il bambino la guardava, dondolando le gambe e facendo cigolare qualcosa sotto il sedile.
La sortita dello scrittore mi aveva sorpreso. La strada per Odessa era ancora lunga e il mio gioco del gatto con il topo era iniziato prima del previsto. Questo mi seccava, molto.
Temevo di annoiarmi, non altro. La fine, la chiusa, era già scritta.
Passarono alcuni minuti. Il giallo delle spighe si era rubato di nuovo i miei occhi. La voce di Balakin mi restituì al treno. 
- Lei non legge, invece. Nemmeno il giornale - constatò quasi severo.
Risposi subito questa volta. - Non serve leggere – E sorridevo mentre parlavo. 
Non ha ragione – disse Balakin allontanando il capo dal poggiatesta e protendendolo, leggermente, verso di me, come se volesse essere sicuro che lo sentissi bene. Continuò – In generale intendo. Ma anche adesso, su questo treno. Qui serve che si legga. Terribilmente. A lei. E a me soprattutto

L'espressione interrogativa che la frase disegnò sul mio volto la sentii come un marchio. Intanto, Balakin aveva appoggiato delicatamente il libro sul sedile accanto a lui, dritto in grembo alla donna addormentata, che non si mosse di un centimetro. Il bambino si aprì in un sorriso rumoroso e lo scrittore sorrise a lui mettendosi un dito sulle labbra nel gesto del "fare silenzio". Poi si chinò, e da una borsa di cuoio marrone consunto tirò fuori un altro libro. E me lo porse, allungando un braccio verso di me.
Lessi il titolo: "La scoperta del fuoco".
Ce n'era una copia identica senza il nome dell'autore, malconcia e di carta grezza, allegata al dossier di Balakin, che mi ero limitato a esaminare nella forma e nei colori della copertina e a sfogliare con lo studiato disprezzo che mi avevano insegnato così bene.

Era la sua ultima opera, naturalmente, quella che aveva segnato la fine. Tenni il volume in mano, chiuso, per alcuni secondi, guardando negli occhi Balakin. Mi fissò anche lui, con gli occhi nerissimi e ridotti a due spilli dalle sue spesse lenti da miope.
Quando aprii la Scoperta del fuoco e iniziai a leggere le prime righe, lui recuperò il libro di Gor'kij.

Balakin finì di leggere prima di me. Si voltò verso il finestrino e non se ne staccò per un paio d'ore. Il sole non c'era più adesso e nuvole di proporzioni sovietiche si rincorrevano a perdita d'occhio. Io arrivai all'ultima pagina mentre il treno ripartiva dalla stazione di Kotovsk.
Ripensai alla verità. Senza sosta. Fino alla fine del viaggio.
Quando il treno arrivò ad Odessa, il giorno dopo, Balakin aiutò la donna a prendere una vecchia valigia dalla rastrelliera e aspettò che lei e il bambino uscissero dallo scompartimento. Poi, in piedi, mi guardò. Io risposi semplicemente riconsegnandogli il libro e chiudendo gli occhi.
Scesi dal treno per ultimo. Senza sapere più dove andare.

Domenico Caringella

4 commenti:

  1. Devo inventare qualcosa per non ripetere un iperbolico: bellissimo! E allora dico struggente ma non solo. Realistico, intenso, profondo, umano. Ma volevo essere sintetica. E allora?
    Bellissimo.
    Incapace invidiosa

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