mercoledì 9 novembre 2011

L’estate della polacca


L’estate era appena iniziata, ero alla finestra annoiato. Stavo sperimentando, dopo una vita di lavoro, quanto è difficile trovarsi improvvisamente senza niente da fare.
Il taxi si è fermato con il motore acceso proprio sotto alla mia finestra. Lei è scesa con grazia, trascinando sul marciapiede una vecchia valigia. Indossava un abito a fiori di cotone leggero, decisamente fuori moda.
C’era il figlio di Cerroto ad accoglierla, le ha allungato la mano per salutarla e lei gliela ha stretta timidamente.
Ha alzato il capo per osservare il palazzo, io ho incrociato solo per un secondo il suo sguardo di un azzurro intenso, perché il sole l’ha costretta a serrare le palpebre. Il biondo delle ciglia ha sfiorato per un attimo il solco scuro delle occhiaie.
Non era certo una ragazza, la pelle del viso mostrava tutti gli anni accumulati. Ho pensato che poteva essere sulla cinquantina abbondante anche se, a prima vista, sembrava più giovane per via della la corporatura esile.
Era da parecchio tempo che non vedevo il figlio del maresciallo Cerroto, abitava a Milano da anni e non tornava quasi mai. Si era deciso a trovare una soluzione per il padre che non era più in grado di vivere da solo. Negli ultimi mesi la sua salute era peggiorata e non bastava più la fida Lisetta, tre volte alla settimana, a riordinargli la casa e la biancheria, aveva bisogno di essere seguito costantemente.
Ho cominciato a vederli passeggiare tutte le mattine, Cerroto e la signora bionda, nel giardino di fronte a casa. Lui procedeva con passo marziale e fare autoritario, lei gli dava il braccio con modi gentili, sostenendolo delicatamente, senza darlo troppo a vedere. Ogni tanto lui si fermava, lei lo assecondava e gli aggiustava la giacca che gli si era rigirata nella foga della camminata.
Ben presto per me era diventata una consuetudine: tutti i giorni, a quell’ora della mattina, aspettavo di vederli passare. 
Qualche tempo dopo il suo arrivo, la signora Rosina del primo piano, che è sempre informata su tutto quello che succede nel palazzo, mi ha detto: “Ha visto la polacca?”.
Ho saputo così da dove veniva, che si chiamava Bianca, l’ho imparato dal timido biglietto scritto a mano che è comparso sulla cassetta delle lettere di fianco alla targhetta del maresciallo.
La osservavo spesso da lontano, m’incuriosiva. Il pomeriggio, mentre Cerroto riposava, lei metteva una sedia a sdraio in terrazza e leggeva. Era assorta, ma ogni tanto alzava lo sguardo trasparente che si perdeva nel vuoto.
Mi sono scoperto a guadarla con un trasporto che ricordavo di avere sperimentato solo ai tempi del liceo, quando passavo l’intera ora di filosofia in adorazione dell’irraggiungibile Caterina. La mia emozione era un brivido che si insinuava tra le spalle mentre con gli occhi seguivo per un attimo la linea del suo collo.
Una mattina, dopo avere controllato che fossero là, ho finto di passare per caso dal giardino e ho salutato Cerroto con calore eccessivo. Lui non mi ha riconosciuto, lei allora si è sentita in dovere di scusarlo, spiegandomi che alterna momenti di lucidità ad altri di vuoto. 
Ci siamo poi seduti su una panchina, ci siamo presentati, ed è stato molto naturale conversare  un po’ tra noi. Non ricordo esattamente quello che le ho detto perché l’emozione era troppo forte, ma ricordo bene il suo profumo, un odore di buono, di pulito, di fiori delicati.
Forse le ho parlato un po’ di me, della mia solitudine, dei miei giorni vuoti, del piacere che provavo a parlare con lei in quell’assolato giardino.    
Lei mi ha detto che si trovava bene a Bologna. Le persone sono gentili e la Madonna di San Luca è scura come la Madonna della sua città.
Parlava bene l’italiano, aveva solo un leggero accento e apriva la “o” in modo curioso.
Una volta ho ritirato dal postino una raccomandata per Cerroto, quando li ho visti rientrare dalla passeggiata gliel’ho portata. Lei mi ha invitato ad entrare. Abbiamo preso il caffè tutti insieme e conversato come vecchi amici. Mi ha detto che la signora Fiori, dell’ultimo piano, aveva saputo che era stata insegnante di pianoforte a Czestochowa e le aveva proposto di dare lezioni alla figlia, ma lei aveva rifiutato. Non poteva prendere altri impegni, anche se le era dispiaciuto, perché la musica era sempre stata la sua vita e le mancava molto.
Quel giorno ho comprato all’edicola un CD con le musiche per pianoforte di Chopin, lo vendevano allegato a una rivista. L’ho messo nel lettore e quando le note mi hanno avvolto ho immaginato le sue belle mani correre veloci sulla tastiera del pianoforte in una sala piena di stucchi dorati, in una città che non conosco.
Nei giorni seguenti facevo di tutto per incontrarla quando usciva con il maresciallo. Era diventata una piacevole consuetudine vederci e scambiare alcune parole che stemperavano le nostre solitudini.
Mi parlava delle sue figlie, dei nipoti, ma non mi ha mai detto nulla del marito. Io non ho mai chiesto.
Un pomeriggio, dopo che mi aveva mostrato con orgoglio una foto dove si vedevano due ragazzone sorridenti circondate da bambini biondi, le ho sfiorato i capelli. Mi ha sorriso, con il sorriso più triste che abbia mai visto e ha detto: “Grazie, ma non me lo posso permettere”.
La sera stessa ho sentito la sirena dell’ambulanza sotto casa. Mi sono affacciato e ho visto i portantini caricare in fretta Cerroto, poi anche lei è salita trafelata.
Nei giorni successivi tutte le persiane sono rimaste chiuse.


Oggi il cielo è grigio, pioviggina, l’autunno è già arrivato. Dalla signora Rosina ho saputo che il maresciallo è stato tumulato in Puglia, al suo paese d’origine. L’appartamento sarà forse messo in vendita.
“E lei?” ho chiesto “Bianca, dove è andata?”
“Mah… sarà tornata in Polonia, oppure avrà trovato un altro anziano da assistere, chi può saperlo? Quelle non si fermano mai in un posto per troppo tempo.”


Anna Rocca

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