Modestino Settesanti era stato per tutta la vita il guardiano del faro. Nelle giornate di tramontana si chiudeva nella rimessa di legno, accendeva il fuoco e si sedeva sulla poltrona davanti al camino a fumare la pipa. Teneva gli occhi fissi sulle fiamme, senza vederle davvero. Nessuno può dire cosa pensasse in quei momenti, fatto sta che lo sguardo e i suoi pensieri, si perdevano in qualche strano abisso. Il sipario calava portando via con sé una parte importante di lui. Era inutile chiamarlo, non rispondeva. Se ne stava lì, immobile, a fissare il fuoco con le dita intrecciate nella barba ispida. Lo aveva fatto per anni. Ma quella mattina qualcosa andò storto e si ruppe l’incantesimo.
Appena si levò il vento, prese la pipa dalla sua stanza nel faro e si incamminò verso la rimessa, con un braccio serrato sul giaccone, la pipa ben stretta nella mano e l’altra sul cappello. Sulla soglia si accorse subito che qualcosa non quadrava. Dai vetri polverosi scorgeva il camino spento, la poltrona piena di crepe con i suoi rigurgiti di gomma piuma e il tavolino su cui stava la candela. Non tornava. Spinse la porta cigolante ed entrò. Adesso poteva vederlo bene, era lì, sulla poltrona, piegato, non era stato gettato lì a casaccio ma adagiato e riposto con cura.
Mille volte aveva attraversato il sentiero dal faro alla rimessa per sedersi davanti al fuoco sapendo che quel luogo era suo e di nessun altro, neanche sua moglie ci aveva mai messo piede se non una volta, la prima e l’ultima, per chiamarlo dal suo letargo. Ma adesso qualcuno era entrato e aveva piazzato quel vecchio maglione sulla poltrona. Non si chiese chi potesse essere stato ma perché qualcuno si era preso la briga di ripescare quella cosa dal passato per spiattellargliela sotto il naso, nel suo rifugio. Iniziò a tossire, brutto segno, tossiva il suo malumore.
Non osava entrare nella rimessa, non ne aveva il coraggio. Quell’intreccio di lana rossa era un fantasma, silenzioso, composto eppure fragoroso come una cascata, spettacolare come un campo di papaveri a primavera, scarlatto come sangue fresco e innocente. Portò le mani alle orecchie per non sentire il tonfo dell’acqua e chiuse gli occhi per non vedere quel miraggio sulla poltrona, i mille volti di quell’intreccio rosso.
Quando il cadavere di suo figlio fu ritrovato sulla spiaggia, era nudo. La tempesta aveva travolto il peschereccio e il corpo era stato sospinto qualche chilometro più a sud, fino alla Cala del Lupo. Erano sopravvissuti tutti, tranne lui. Sua moglie aveva cercato quel maglione per giorni, per mesi, tenendo gli occhi fissi sul mare, come se qualche pesce intelligente potesse riportarglielo da un momento all’altro. A nessuno era chiaro il motivo per cui lei cercasse quel maglione, la lasciarono fare, a volte le persone si fissano su qualcosa per compensare il dolore di aver perso qualcos’altro. Questo dicevano in paese della giovane vedova. Dopo qualche mese se n’era andata dal faro ed era ritornata nella sua vecchia casa, un edificio a due piani scrostato dalla salsedine, tra l’osteria e l’ufficio postale. Aveva smesso di cercare.
Modestino Settesanti andò subito da lei. Affrontò la tramontana dal faro fino al paese, dove trovò Molosso lo smilzo sulla soglia dell’Osteria. Se ne stava lì a fissarlo, come se lo aspettasse, come se pensasse ‘ecco, sta per arrivare il pachiderma giù dal faro, voglio proprio aspettarlo qui davanti all’uscio’. E’ così che lo vide il guardiano del faro, con le braccia incrociate e il riporto sollevato in verticale pronto al decollo. Si diresse spedito al portone della nuora e si attaccò al battente. Tre colpi secchi. ‘Non cè. Se n’è andata’ urlò Molosso, come se il vento spazzasse via tutti i suoni e fosse necessario spolmonarsi. Il guardiano del faro non reagì, si limitò a guardare Molosso ma non si sa se lo vedesse davvero. Forse vedeva l’involucro dello smilzo, la sua facciata e nulla più come se fosse una fotografia, di quelle senza anima. ‘Se n’è andata’ ripeté lo smilzo. Lo sguardo del guardiano si spostò di riflesso sul piano superiore della casa, sperando in una bugia dell’oste. Di nuovo tre colpi di battente. Lo smilzo scosse il capo mentre il guardiano si allontanava cupo, incrociando lo sguardo bovino di Frà Cassone, preso dai sui starnuti da tramontana, con la gonna che sobbalzava a ogni suo passo gravoso.
La stessa tramontana che spinse Modestino Settesanti fino alla stazione. Lei era lì, seduta su una panchina di legno, gli occhi bassi. Sembrava seduta su un fascio di rovi, pronta ad alzarsi di scatto verso un luogo sicuro.
Modestino la coprì tutta con la sua ombra e fu costretta ad alzare gli occhi. La tirò verso di se, come giocando a sbarbacipolle e la abbracciò forte, così forte da toglierle il respiro e con le sue lacrime silenziose le bagnò i capelli. Non aveva mai pianto così, mai in tutta la vita, neanche quel giorno alla Cala del Lupo. E lei non era mai stata abbracciata così forte. Il capostazione fischiò e un convoglio sfrecciò senza fermarsi sconquassando le vetrate un attimo prima immobili. Quando il suo treno arrivò erano ancora stretti l’uno all’altra in silenzio. Non si salutarono né si guardarono negli occhi, sembravano distratti da altri pensieri. Lei si incamminò verso la sua carrozza col passo leggero di chi non pesa nulla, salì senza voltarsi indietro pronta a percorrere la sua nuova strada.
Elisa Minì
Pubblicato nell'antologia: "In vino veritas" (Roma, Perrone Lab, 2011)
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