Dopo essersi alzato Giorgio era già affaticato. Le membra erano gravose sulle ossa indolenzite, gli occhi grigi si rintanavano dietro ciglia cadenti, il piccolo volto agognava il guanciale. Dormiva sempre. In macchina, la testa appoggiata al finestrino; a scuola, dondolante sulla sedia, la maestra che urlava: «Giorgio, insomma!»; a casa il pomeriggio, sotto le coperte roride di sudore; la notte, disteso nella placida marea di sogni innocenti. Il sonno lo coglieva dappertutto, era la sua malattia, la sua condanna. I giochi sotto gli ippocastani, le amicizie fraterne, i primi tremuli amorosi, tutto era sparito dietro la sonnolenza che gli ghermiva le tempie, ostaggi perenni della pigrizia. All'inizio a scuola le maestre pensavano fosse uno smidollato, appeso a divertimenti notturni indicibili. I compagni di classe lo canzonavano, alcuni lo puntavano con l'indice sottile e malvagio.
«Guarda guarda, Giorgio s'è addormentato» dicevano piano per schernirlo.
Lui sedeva sulla sedia in plastica arancione, la testa tra le braccia sopra il banco obsoleto, di
quelli che avevano ancora il buco per il calamaio. La manica del grembiule era bagnata da una scia di saliva che pendeva dal mento, il vicino di banco lo scuoteva per destarlo: temeva di essere preso in giro anche lui. Ma niente, più lo scuoteva, più le risa rimbalzavano di banco in banco, di fila in fila, finché tutta la classe gracchiò rumorosa.
La maestra rivolta verso la lavagna si girò e ruggì:
«Giorgio alzati!»
Il ragazzo, inebetito dal torpore, alzò il capo e cercò di ricomporsi velocemente.
«In piedi» disse minacciosa la maestra.
«Cosa?» chiese trasognante.
«In piedi. Mettiti in piedi, voglio vedere se ti addormenti di nuovo».
Giorgio restò in piedi. Le palpebre cedevano, il bianco delle pareti si mescolava con quello del
gesso, le gambe gli tremavano. “Non reggeranno” si diceva terrorizzato. Sentì qualcosa colpirgli la testa, leggera, come se gli avessero mosso i capelli, poi ne sentì un'altra e un'altra ancora. I
compagni delle ultime fila avevano ingaggiato un tiro al bersaglio: sulla testa gli piovevano palline di carta. Giorgio girò il busto, vide Camilla. S'era alzata per fargli smettere, la fronte accorata tradiva lo sguardo vitreo. Era l'ultimo appiglio rimastogli nelle sue timide ore di veglia. Abitavano vicini, ogni tanto giocavano assieme, quando Giorgio era abbastanza desto per reggersi in piedi.
Veniva ai suoi compleanni, unica invitata, unico rifugio della sua infanzia.
Giorgio non ce la faceva più, posò le mani sul banco, per alleggerire le gambe. Chiuse gli occhi e rovinò a terra sbattendo il corpo contro il pavimento duro. La maestra corse per soccorrerlo, disse di andare a chiamare la bidella, i genitori, l'ambulanza, che arrivò a sirene spiegate poco dopo, la luce blu metallica entrò dalla finestra, due uomini robusti uscirono celeri con un lettino, attraversarono alacremente il cortile, lo portarono via. I compagni restarono allibiti e anche un poco spaventati. La maestra, mossa da un tardivo senso di colpa, disse con dolcezza alla classe:
«Coraggio, riprendiamo la lezione».
La mattina seguente era già a casa, la primavera muoveva i primi passi nella brina mattutina.
L'aria era ancora fredda al sorgere del sole, ma verso mezzogiorno si scaldava, diveniva mite. Il
padre l'aveva riportato a casa per tenercelo, non l'avrebbe portato a scuola. Prima doveva spiegare alle maestre che no, non era strano, era malato. Giorgio riposava nella sua camera, un po' dormiva, un po' leggeva.
Nel pomeriggio venne Camilla, suonò il campanello e chiese dell'amico.
«Sta riposando» le rispose il padre.
«Va bene» fece lei. E se ne andò.
Camilla era dispiaciuta, avrebbe voluto fare qualcosa per lui, avrebbe voluto guarirlo. C'erano le
medicine per le malattie ma forse, per quella di Giorgio, non ne avevano ancora inventate. “Che sia vittima di un incantesimo” si chiese.
Il giorno dopo, quando Giorgio entrò in classe, i compagni lo guardarono impauriti, si scostarono per schivarlo. Il gelò piombò tra quelle mura inerti, il silenzio zittì i banchi ridenti. Non c'era nessuno vicino al suo posto, l'avevano lasciato solo. Giorgio si guardò attorno, vide facce disgustate, dai lineamenti sospettosi. Da strano era diventato malato, infetto.
«Ha i germi» sussurrò qualcuno dalle fila dietro.
«È solo malato, guarirà» gli rispose una voce calda, come un fiamma gentile che scricchiola
nella notte. Camilla si alzò dalla sedia arancione, stirò con la mano le pieghe del grembiule bianco, scostò lo zaino con le gambe e sollevò il banco, si accostò a Giorgio.
Qualcuno ammiccava, si davano le spallucce, manifesti puerili della stupidità. Camilla non ci
faceva caso, recuperò la sedia e la cartella, si sedé in attesa. La maestra entrò in classe, in mano una piantina arrotolata dell'Italia. La srotolò e l'appese ad una puntina sopra la lavagna.
«Oggi parliamo delle regioni italiane. Chi sa quante sono?» chiese.
«Venti venti» s'affrettarono a rispondere i più.
Camilla guardava Giorgio, il capo pesante sul polso cedevole.
«Che regioni hai visto tu?» chiese piano Camilla per non farsi sentire dalla maestra.
«La Toscana» rispose con voce assopita.
La spiegazione continuava, Giorgio si reggeva il volto con entrambe le mani, toccavano il viso,
si spostavano sul collo, cercavano la posizione più comoda per far riposare il loro manovratore.
«Ahi» gemette Giorgio.
Camilla ritrasse le dita dal dorso della sua mano, lo sguardo attento verso la cartina.
«Ahi» gemette di nuovo Giorgio, accarezzandosi il dorso arrossato.
Si destò come scosso da un improvviso richiamo, era doloroso, aveva la consistenza di un
pizzicotto. Camilla seguiva la lezione, scorse con la mano i lunghi capelli castani, domando qualche ciuffo dietro l'orecchio.
Giorgio liberò le mani dal volto, prese la penna e cercò di imitare Camilla, scriveva sul quaderno quando lo faceva lei. Dopo un po' la mano e il gomito sinistro gli fremevano, volevano farsi carico della testa affaticata, le palpebre si sarebbero trasformate in uno scrigno di sogni in qualsiasi momento Giorgio lo avesse desiderato.
Camilla cercò Giorgio con la coda dell'occhio, il capo fermo, premuroso. Fece scivolare la mano
sotto il banco, la accostò al fianco di Giorgio, le dita pronte ad assestare il colpo. Afferrò un grosso brandello di pelle tra le dita lo strinse e girò come se stesse girando una chiave nella toppa.
«Ahi» gemette una terza volta.
Camilla si prese cura di lui fino a fine giornata, quando la campanella suonò. Giorgio non aveva
seguito le lezioni, ma almeno non si era addormentato. Tornarono a casa assieme, la strada era
trafficata, chiassosa e dentro quel clangore l'amico pareva perso.
«Ho i germi?» chiese a Camilla.
«No, sei solo malato».
«Ma sono infetto?»
«No, figurati».
«E invece sì, sono infetto».
«No che non lo sei, sei solo malato».
«Trasmetto le malattie».
«Non è vero. Sei solo diverso. Non siamo tutti uguali».
«Mi chiuderanno in una prigione».
«Oh, basta insomma» disse indispettita Camilla. Avvicinò le piccole labbra alla guancia di
Giorgio, la sfiorarono, discrete.
«Che fai?» chiese sorpreso.
«Ti dimostro che non stai male. Su fallo anche tu».
«Cosa?»
«Dammi un bacio, qui, sulla guancia» rispose indicando col dito.
«Cosa?»
«Dammi un bacio, vedrai che non mi attaccherai niente».
Giorgio posò le labbra sulla sua guancia, goffamente.
«Hai visto?» chiese Camilla «non sto male».
Si lasciarono così, un po' per scherzo, un po' per gioco.
Giorgio rientrò a casa. La guancia pulsante irrorava un felice risveglio alle sue membra.
Quel pomeriggio non riuscì a dormire.
Egidio Ferro
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