lunedì 1 agosto 2011

La guerra del fuoco

Tutte le volte che passavo in macchina da quella curva i miei pensieri tornavano al punto di partenza: gli anemoni. Era  un tratto in salita, che si attorcigliava sul crinale della collina, tra i prati e il vuoto. Nel punto più sbilenco della curva la radio perdeva il controllo, andava fuori strada, per così dire. Invece di dedicarsi a un solo canale mi sparava nell'orecchio settantadue programmi contemporaneamente. Non era bello. Questo all'inizio. Perché a poco a poco cominciai ad apprezzare quella varietà.  Anche le frasi e le musiche più stupide acquistavano qualcosa, centrifugate a quel modo. Mi sembravano purificate.  
    I prati laggiù in fondo, lontani ma visibili, erano quelli dove andavo a cogliere i fiori con mia nonna da bambino.  So già cosa pensate: i fiori, la nonna, il bambino.  Figuriamoci.  Solo che sbagliate, come sempre. Non era una cosa melensa. Era emozionante. Era come, mettiamo, andare a caccia di squali a mani nude in un mare verde percorso dal vento. Esattamente lo stesso. C'erano immondi cani randagi che cercavano di azzannarci, e paranoici proprietari terrieri sempre in agguato, sempre pronti a spararti se solo rubavi un fiore o forzavi un cancelletto. E c'era la sera, che a volte ci sorprendeva quando eravamo ancora lontanissimi da casa, nella campagna selvaggia. Gli alberi resi sinistri dal crepuscolo. E allora avrei voluto vedere voi, che ogni tanto andate in palestra o fate una corsetta ridicola. Non vi sarebbe bastato. 
  Per me quelle camminate interminabili sono rimaste  la forma prima dell'avventura. Il pensiero correva  in ogni direzione con una fluidità eccezionale e io ero - credo di poterlo dire senza vergogna - perfettamente felice. Se ci rifletto mi sembra incredibile che una donna anziana e un bambino potessero coprire simili distanze senza che nessuno li candidasse per le olimpiadi. Forse, per motivi opposti, non avevamo l'età. Del resto quella campagna era quasi deserta: a parte rari e intensi periodi dell'anno, non trovavamo nessuno per chilometri, nonostante ci muovessimo tra vigne e uliveti. Quando incontravamo cani psicotici, mia nonna diceva che si sentiva tranquilla perché c'ero io, diceva che la mia presenza la rassicurava, nonostante fossi solo un bambino, o forse per quello, così parlava al cane e il mostro si  dava una calmata. Una volta trovammo perfino un toro.
  Mi sentivo un cacciatore di fiori. Molti anni dopo ho provato emozioni simili con la pesca subacquea. L'ambiente fresco e misterioso, l'attesa di un bagliore inaspettato nel blu, o nel verde, la concentrazione, il risveglio di parti del cervello che nelle altre situazioni dormono. Ecco, esattamente questo: il risveglio di una parte di te che quando smetti di essere lì non esiste più, e che quindi è preziosa. Anche se certo delle differenze tra caccia subacquea e ricerca delle giunchiglie ci sono, per esempio i fiori stanno fermi. Comunque, in ogni posto nuovo potevamo trovare pericoli o tesori. E li trovavamo.
  I fiori da prendere erano rigorosamente di tre tipi: tromboncini, anemoni e giunchiglie. Trent'anni dopo, guardando giù dalla curva, mi tornavano in mente soprattutto gli anemoni scuri. Pensavo ai prati ripidi benedetti dal vento, a quei fiori, carnosi, violetti, che come i tromboncini e le giunchiglie, più di loro, sembravano bocche e porte di un altro mondo.  La nonna ascoltava  i miei discorsi su come avrei creato  mutanti resistentissimi tenendo per un mese dei rospi nel freezer; su come avrei viaggiato nel tempo;  su come smontando i miei vari giocattoli tecnologici e ricombinando i pezzi le avrei presto costruito un automa per  lavare i piatti. Mi sembrava un'idea prodigiosa, non mi rendevo conto che esisteva già la lavapiatti (mia nonna non l'ha mai avuta), e immaginavo di costruire un automa  a forma di donna, con un bel grembiulino rosa, che lavasse i piatti canticchiando. Ho smontato molti giocattoli, ma non ci sono mai riuscito. Del resto a quel tempo ero pieno di idee. Una volta dissi a mio nonno - il marito dell'altra nonna - che mi sarebbe piaciuto conoscere i riti per evocare il diavolo. Lui, che non era credente, mi rispose che nel corso della vita lo avrei incontrato molte volte.
  Tornando a mia nonna, non batteva ciglio neanche quando  dicevo che un giorno mi sarei fatto ibernare per sapere come era il mondo del futuro. Ora un'idea simile genera in me, come in tutti, suppongo, un terribile senso di solitudine. Il proprio tempo è una parte del proprio corpo. O viceversa, non saprei. Ma allora quella dell'ibernazione mi sembrava una grande trovata.   In certi giorni non pensavo che a progetti del genere. Oggi mi capita  sempre più spesso di vedere gente giovanissima e immaginarla già vecchia. Anche se incontro una ragazza molto bella, oltre a pensare quello che pensano tutti, penso che quello è un trucco della natura per far perpetuare i geni di due futuri vecchi decrepiti. Del resto, come trucco, è un bel trucco.  O mi capita di rimpiangere con un'intensità dolorosa tutte le cose che sono andate perdute negli ultimi tredicimila anni.  Per cui mi dico che non c'è fretta. C'è un tempo per tutto. Anche per il futuro.
  Non era primavera in quei giorni. I primi anemoni li coglievamo a  febbraio, a volte a gennaio. Era bello, come quando ci si immerge in mare fuori stagione, e, mentre si scivola sotto la superficie metallica, sembra di  entrare in un regno segreto, proibito agli uomini, che accoglie te per una sua ragione particolare, perché sotto sotto ti stima. Quei prati pieni di fiori e di bocche e di porte non appartenevano più all'inverno, assurdo pensarlo, perché già l'aria era cambiata, era  piena di qualcosa di vivo, e i primi impensabili insetti, viaggiatori nel tempo,  cominciavano a cavalcare le onde radio in subbuglio. Ma neppure era primavera. Era un'altra, una quinta stagione. E quel posto era un altro posto. E l'erba si apriva al nostro passaggio come il mar Rosso di fronte a Mosè.  Io mi portavo sempre dietro una piccola bussola, forse una bussola da bambini. Una volta mentre eravamo nei campi si ruppe, non si capiva più dove fosse il nord. Io penso che se qualcuno degli ebrei avesse avuto una bussola, mentre attraversavano il Mar Rosso spalancato, ebbene anche in quel caso la bussola si sarebbe rotta, sarebbe impazzita.


  Trent'anni dopo, salendo per quella curva che faceva arrancare la mia povera macchina, con la radio che puntalmente impazziva nel tratto consueto, mi rendevo conto che quelle voci c'erano sempre state. C'erano quando ero bambino. E prima. E prima prima. E prima ancora. Se anche tenevo la radio spenta e non sentivo nulla, io sapevo  che c'erano. La radio riusciva a captare solo alcune di queste forze, ma sicuramente ne esistevano altre e di altro tipo. L'aria era zeppa di presenze. L'aria era queste presenze. Probabilmente captandole tutte ti  saresti accorto che  il disegno completo è armonioso. Ma certo bisogna andare sulla fiducia. Non esiste congegno che possa captarle tutte. Ci sono e basta.
  
Quando tornavamo a volte mia nonna leggeva delle storie in cucina. Lesse a puntate quello che per anni ho creduto essere il primo romanzo risucchiato dalle mie orecchie: un'epopea di cavernicoli alle prese col delicato miracolo del fuoco. Protetti dalla luce bassa di una lampada che non esiste più, ma che per me c'è ancora, col buio che premeva da tutti i lati come lo stomaco di una piovra, lasciavamo che quella storia prendesse vita. Quando cominciai le elementari, quelle letture furono interrotte. Forse pensavo fosse roba da poppanti. Per parecchio tempo non ne parlammo più. Fu verso i dodici anni che quella storia mi tornò in mente. Chiesi notizie a mia nonna,  la quale rispose che non ricordava nulla del genere, quel libro non era mai esistito.
  Incredibile. Io lo ricordavo - o meglio ricordavo le sue atmosfere - perfettamente. Lasciai perdere. C'erano cose più importanti. Ma periodicamente, ogni due o tre anni, tornavo con noncuranza a porre la mia domanda: cos'era quel libro? E mia nonna ripeteva che non se lo ricordava, che non esisteva.
  E' andata avanti così  per tutta la mia adolescenza e poi più su. Io ogni tanto ripetevo la domanda, più per abitudine, o come forma rituale, che non illudendomi di ricevere risposta.  Un anno prima che la nonna morisse ho chiesto ancora. Al che lei ha risposto "Il libro dei cavernicoli?  Ma certo. La guerra del fuoco. E' di là" ed è andata a prenderlo, così,  come fosse una cosa normale.
  Dunque mi sono trovato tra le mani  quel libo fantasma. Era sempre stato là, a pochi metri dalla cucina. Oppure no? Dove era stato? Come era tornato? Cosa era successo? Me lo avevano mandato gli anemoni? Chi lo sa.
  Ora però quel libro vecchissimo è qui accanto a me. Un giorno lo aprirò e inizierò a leggerlo.


Passata la curva, la radio si riprendeva, le voci ridivenivano una. La strada  correva diritta sul crinale, e io abitavo poco lontano. Vicino a casa le voci accennavano un formicolìo, roba di poco conto.  Ma io pensavo di trovarmi in una zona di confine. (Capivo che queste idee avevano la stessa plausibilità di quelle che raccontavo a mia nonna durante le passeggiate. Ma non mi importava). In giardino trovavo Attila ad attendermi: il mio gatto.
  Una volta tornai e Attila non c'era. Dai campi saliva l'odore delle giunchiglie. La mia ragazza, Adel, disse che l'aveva visto sul ciglio della strada, morto, a poche centinaia di metri. L'aveva investito una macchina.
  Andai da lui.
  Quasi non lo guardai, proprio non ce la facevo, non riuscivo a vederlo. Quando lo presi in braccio sentii che era ancora morbido, non doveva essere successo da molto, quello che era successo.
  Lo portai lontano dalla strada ma non lo seppellii, non potevo scavare a mani nude dentro la terra gelata. Lo sistemai sotto un cumulo di rami di ulivo tagliati, vicino a degli anemoni, lo salutai e  andai via.
  Tornando a casa, pensavo che aveva avuto una bella vita, una vita avventurosa, e che allo stesso tempo aveva percorso sempre gli stessi luoghi. Pensai che anche a me piaceva correre sempre per gli stessi boschi e gli stessi prati. Non che fossi del tutto rimbambito e non avvertissi il desiderio a volte violento di andare in posti remoti e impensabili, con gente nuova  o anche - meglio, molto meglio - senza gente. Ma io sentivo questo:  quei luoghi che erano i  miei  luoghi contenevano un ingranaggio che metteva in movimento tutto il resto. Anche il fondo del mare con le sue creature luminescenti, per esempio. In quei campi c'era il segreto dei rospi ibridi, degli organismi sintetici, degli automi col grembiulino rosa, dei viaggi interstellari  e delle civiltà future e di quelle perdute, delle persone future e di quelle perdute, che poi si identificavano.
    
  In giardino c'era Adel  che mi aspettava. Mi disse che lei ancora ancora si poteva capirla, quel gatto l'aveva visto di sfuggita andando in macchina. Ma io dovevo essere proprio cieco.
  Cosa stava dicendo? Non capivo.
  Poi capii.
  Attila era accanto a lei. Vivo e vegeto. E il gatto che avevo affidato all'abbraccio degli anemoni era un altro.
  Allora vidi le colline in fiamme. Ancora una volta la guerra del fuoco prendeva vita nella mia testa, recuperata da chissà quale distanza. Capivo che non avrebbe mai avuto fine.


Enzo Fileno Carabba

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