Si svegliò ed era tardi.
Eppure gli sembrava di essersi appena addormentato.
Tuttavia la piccola finestra circolare non mentiva: era una luna splendente, quella.
L’eco di una voce si stava dissolvendo nella sua testa.
Un sogno.
Si accertò di stare bene. Muscoli, ossa, tendini. Nessuna rogna.
Studiò il breve margine tra lui e le pareti: del cordame, alcuni sacchi colmi di terriccio.
Era tutto.
Nonostante l’oscurità, ci vedeva piuttosto bene.
Si appoggiò sui gomiti e allungò la testa per sbirciare oltre il minuscolo vetro, ma non ebbe fortuna: l’angolazione era scorretta.
Con stupore si avvide di quanto basso fosse il soffitto, un intervallo che dianzi gli era parso più che sufficiente.
Fuori, un’immensa distesa d’acqua, un mare nero e impenetrabile, straordinariamente calmo e liscio, su cui galleggiava una luna eccezionale, piena e sfavillante.
Si trovava dunque su un bastimento.
Che certamente seguiva una rotta. E con alacrità. Aveva notato in basso l’impetuosa spuma prodotta dal movimento.
Eppure lo meravigliò il silenzio invaso, è vero, dagli scricchiolii del legno che trovava nuove posizioni.
Pesava l’assenza di quel baccano che etichettava un’imbarcazione in piena attività.
Avvertiva con chiarezza le correzioni di rotta e il fluttuare dello scafo che solcava gli abissi.
Ed il suo corpo abile a compensare il dondolio.
Forse era stato malato e l’equipaggio aveva ricevuto delle consegne speciali.
In tal caso il suo prestigio doveva essere considerevole. Possibile addirittura che il vascello fosse di sua proprietà.
Riprovevole allora quella specie di magazzino quando gli sarebbe spettata di diritto la cabina più confortevole.
E quell’insolito giaciglio colmo di terra scura che emanava un odore selvatico.
Il bisogno di aria fresca lo condusse al ponte di coperta.
Dopo pochi gradini udì il frangersi delle onde sulla chiglia.
Il vento sussurrava tra il sartiame.
Sbucato alle spalle della grande ruota timoniera la osservò sbigottito oscillare sotto la cura di una mano invisibile ma esperta che imprimeva piccole variazioni di rotta.
Il ponte di comando appariva però abbandonato.
Che prodigio era mai quello?
L’imbarcazione procedeva spedita nel mare aperto come se avesse alle calcagna il carro di Lucifero, le vele maestose tese a prua, mentre l’incessante distesa d’acqua, cui la luna strappava bagliori d’ossidiana, sospirava intorno allo scafo.
Oltre la porzione di mare illuminata dalla luna poteva esserci qualsiasi cosa.
Attraversò indenne il ponte ingombro di utensili fino al castello di poppa.
Una scena spaventosa.
La grande vetrata in fondo era in frantumi e il vento finiva di gettare scompiglio nella sala devastata.
La tavola al centro era stata apparecchiata e un pesante candeliere giaceva rovesciato nella confusione di piatti e bicchieri.
Molte sedie erano capovolte, i quadri divelti e sparpagliati, le tende strappate.
Poi vide i corpi ammassati e vi si precipitò con un impeto che lo sorprese, come se qualcosa di ineluttabile gli si fosse risvegliato dentro squassandolo.
Tanto profondo era dunque il suo turbamento.
Osservò affascinato i miseri residui di sangue e confuso si accorse di avere una sete poderosa.
Il suo corpo stava cedendo.
E forse anche la mente.
Improvvisamente i sospetti ed i timori che finora lo avevano angosciato tramutarono in un’emozione nuova e più potente che gli divampò nelle viscere come un incendio: la certezza di essere seriamente in pericolo di vita.
Quale essere incredibile li aveva sopraffatti?
Vi era stata una lotta, lo vedeva con i propri occhi.
Si maledisse quindi per aver abbandonato in maniera così scellerata quel rifugio sicuro.
La tragedia era avvenuta da poco.
Immaginò di essere svenuto e con prontezza portato in salvo.
Il servitore, senza dubbio.
Una volta al sicuro lo avrebbe ricompensato.
Era ancora vivo?
Non c’era un momento da perdere, la creatura poteva attaccare in qualsiasi momento.
Doveva tentare.
Cercò riparo per quanto possibile, misurando i passi e trasalendo ad ogni rumore, gli occhi puntati sulle acque falsamente mansuete.
La stessa distanza gli parve amplificata.
Il ciarpame che ingombrava il ponte boicottava la ritirata esponendolo al mostro che, era forte il sospetto, lo stava osservando.
Notò che il cielo si stava lentamente schiarendo e avvertì una vaga debolezza: gli occorrevano cibo e acqua.
Padrone, mormorò una voce.
E fu un sollievo vederlo, nascosto dietro alle casse.
Tremante, il servo venne allo scoperto e si inginocchiò non osando alzare gli occhi su di lui.
Gli porgeva una coppa colma di un liquido scuro e denso.
La afferrò con avidità aspirandone il profumo, quindi bevve.
Quando il sangue gli irrorò il corpo fu scosso da brividi incontrollabili e la verità lo fece vacillare.
Ebbe timore di quei mutamenti nel cielo.
Il servo gli stava offrendo la gola snudata dove i piccoli segni gemelli spiccavano come germogli scarlatti: così lui marchiava il bestiame.
Il disco solare saliva inesorabile, spargendo il suo seme luminoso nel grembo celeste.
Era l’ovale morbido del volto di Elisabetta.
Non guardarmi così la implorò schermandosi con una delle grandi ali da pipistrello.
Congedati da tutta questa morte lo supplicò.
Smarrito, urlò la sua pena e cadde in ginocchio.
Il giorno lo sorprese, tingendo di un rosa delicato la volta celeste.
La sua prima e unica alba.
Mentre si andavano spegnendo una dopo l’altra quelle stelle così fulgide, lottò contro se stesso vinto da quell’ultimo, irripetibile spettacolo.
Fu doloroso.
Sprezzante delle ustioni che fiorivano sulla pelle ammirò rapito la crescente esplosione di colori, le gradazioni, le sfumature, il prisma di luce sparato nel cielo e infine accolse l’amore che, sbocciandogli nel petto, lo discolpò.
Pianse per quella bellezza che eclissava qualsiasi altra cosa.
E continuò a piangere per tutto il tempo fino a che le fiamme, alte e prepotenti, lo ebbero consumato.
Alessandro Leone
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