Era veramente bello come un dio, quando si avvicinò al letto colmo di lini su cui le fiamme dei bracieri creavano ombre lievi. La pelle era scura e tesa come il cuoio, una linea sottile gli scavava la guancia, sotto la barba, arrivando a sfiorare l’attaccatura dei capelli.
Si avvicinò alla donna che sedeva silenziosa sul letto, il profilo quasi d’ambra trasparente alla luce delle candele. Non aveva il coraggio di toccarla, anche se erano anni che lo desiderava.
Fuori, nella notte, la luna brillava di una luce ancora più bianca, dopo l’eclissi. L’odore del mare si spandeva nell’aria, mescolandosi a quello della terra e degli ulivi mossi appena dal vento.
Fu lei la prima a parlare. Parole e respiro insieme. Dalla tunica preziosa, ricamata con fili d’oro, il collo palpitava nudo, inclinandosi pallido sotto la crocchia pesante dei capelli. Lui desiderò all’improvviso, con un’urgenza che gli faceva quasi male, sentire fra le dita quella massa forte e scura di seta e canapa che aveva riflessi di viola.
Fu lei la prima a parlare. Ti ho aspettato tanto, gli disse con la voce che usciva a fatica e sembrava venisse da lontano.
Lui le toccò una guancia, le toccò la tempia e l’orecchio e lei appoggiò la sua mano su quella mano che non toccava da tempo. Quella mano che erano anni che non la toccava.
Penelope, disse in un soffio, ed erano anni ed anni che anche quella voce non la toccava.
La notte era silenziosa e compatta, dopo tutto quel sangue. La mano di lui, grande e forte e indurita dallo scudo e dalle sartie, era leggera sui capelli e sulla pelle. Non sembrava la mano di chi aveva impugnato e teso l’arco e ucciso uno dopo l’altro, poche ore prima, tutti i Proci, in una tempesta di grida e frecce. Uno dopo l’altro, li aveva uccisi. Eurimaco, che era bello e nobile e ricco, e il valoroso Agelao. Una freccia rabbiosa aveva trafitto Antinoo troncando la sua supponente brutalità. Lei alzò il viso verso di lui. Gli occhi asciutti, di un vetro scuro e compatto.
Sono tornato, le disse, come fosse arrivato in quel momento.
Dopo vent’anni. Vent’anni, disse lei, come se lui non lo sapesse.
Lo aveva immaginato per giorni interi, per lunghe notti. Ai piedi della rocca di Troia, con gli schinieri che lucevano al sole, a gridare ordini, a schierare i soldati Achei. Immaginava il suo viso, le sue parole, i suoi pensieri. Ora che le stava davanti, non lo immaginava più.
Lui avrebbe voluto dirle di quegli anni, delle tempeste che avevano squassato i legni della nave, del sale che entrava nella pelle, negli occhi, nella saliva. Avrebbe voluto raccontarle le voci dolcissime delle sirene, le grida dei compagni divorati dal mostro, il regno lontano dei venti.
Ma Penelope allontanò dal cuore il tocco di quella carezza e quel pensiero di lui che l’aveva accompagnata per anni, fino a farsi sottile come una foglia. Quelle notti in cui l’alba non arrivava mai, il fumo che saliva in lente spire agli dei, mentre nelle ciotole restava un’ombra di polvere grigia della consistenza della sabbia. Fate che ritorni, pregava. Fate che viva. Andava sulla riva del mare e guardava scaglie remote di sole, ad aspettare che la prua scura tagliasse l’acqua. Sapeva che era vivo. E aspettava che tornasse da lei. Continuava a dirlo e ad aspettare, mentre si svolgevano come filo sul fuso il volgere di lune e di soli. Si era resa conto, un mattino, che l’amore e l’attesa erano diventati la stessa cosa e non avrebbe più saputo distinguerli l’uno dall’altra. E che con l’attesa forse sarebbe finito anche l’amore. Penelope guardò l’uomo che le stava accanto, l’uomo che aveva amato, che le aveva dato un figlio.
Odisseo la toccò di nuovo, e le sue grandi mani da guerriero tremavano un poco, sulla pelle calda di lei. Guardami, ti prego, le disse, con una voce sofferta che lei non conosceva.
Lo guardò e capì che non conosceva più niente di lui. Che tutto quell’amore si era sposato con le lacrime e con l’attesa per lunghi anni e mesi e notti. Fino a quella sera, quando anche l’attesa era finita.
Gli prese la mano, delicatamente. Anche i baci le si erano seccati dentro, dopo tanto tempo, e riuscì solo a sfiorare la pelle riarsa dal mare e dal sale. Lo guardò di nuovo, poi parlò, e non c’era timore nelle sue parole, né dentro di lei.
Ho amato un altro, gli disse. Poco tempo fa ho amato un altro.
Odisseo chiuse gli occhi, e sentì i tendini del collo irrigidirsi sotto il respiro.
E’ Anfinomo. Lo hai ucciso. Questa sera, con tutti gli altri.
L’uomo sentì le caviglie che gli cedevano, come fosse nella barca percossa dalle onde e dal vento. Ma non c’erano mare e onde e vento, nella stanza che era stata la loro stanza nuziale.
L’ho amato, e mi amava anche lui. Tu hai vissuto anni di un altra vita, una vita lontana da qui, da tuo figlio, da me. Ho amato un uomo, un altro uomo. Non per solitudine o disperazione o per l’immagine vacua di un sogno all’alba. Lo ha voluto il mio cuore, e le mie braccia con il mio cuore. Ti ho aspettato tanto. Poi, dopo anni, non sapevo più chi stavo aspettando.
Odisseo abbassò lo sguardo ed il respiro. La saliva che gli scendeva in gola a fatica era l’unico rumore, oltre al crepitare dei bracieri in terra. Andò lentamente verso la finestra. Il tempio, sulla collina, dominava le vigne ancora verdi e le case buie di sonno e le navi che all’alba sarebbero scivolate nell’acqua. Una luce bianca sembrava scorrere sul tempo, sugli anni, sui giorni passati, su quelli futuri.
Penelope aveva ormai spento anche l’ultima piccola fiamma rimasta e si era sdraiata in quello che, tanti anni prima, era stato il loro letto nuziale. Le falci d’ombra delle ciglia davano al suo viso una sorta di sicurezza che la rendeva bella come una dea.
Alessandra Burzacchini
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